“Non è poi così lontana Samarcanda” canta Roberto Vecchioni, attingendo a una nota storiella sufi del IX secolo che vede coinvolti un discepolo e il suo maestro di Baghdad. Il discepolo assiste a un inquietante dialogo tra il maestro e l’Angelo della Morte, cui quest’ultimo racconta di avere molte visite da compiere in città nelle ore a seguire. Spaventato, il giovane chiede che gli venga sellato il cavallo più veloce che c’è (nella mia mente assetata d’Oriente, il cavallo, che pure Vecchioni sprona col suo ripetitivo “Oh! Oh!”, ha sempre avuto le fattezze leggendarie dei puledri di Fergana, quelli che, si dice, sudavano sangue) e si mette in viaggio, galoppando senza sosta per giorni e notti alla volta di Samarcanda. Quando l’Angelo della Morte apprende l’accaduto, esclama: infatti, sulla mia lista è scritto che dovrò prenderlo proprio a Samarcanda tra quattro settimane, stremato da una lunga cavalcata.
Raggiungere Samarcanda è dunque una sfida al destino, a se stessi e al desiderio di ripercorrere i passi del viaggio iniziatico che l’umanità intraprese a partire dalla propria origine. Non è poi così lontana Samarcanda, dice bene il prof. Vecchioni! Dista una manciata di ore di volo dal caos nostrano, cui si aggiungono un paio d’ore da Tashkent, capitale uzbeka, a bordo del treno veloce “Afrasyab”, il cui nome rende omaggio al toponimo originario che significa letteralmente “Città sul fiume Sijab”. Vanto della spinta propulsiva verso la “modernità” che l’Uzbekistan post-sovietico e indipendente rincorre al galoppo, alla maniera del discepolo sufi che vuole sottrarsi al proprio destino, il cosiddetto treno veloce può essere considerato tale solo da me e pochi altri che, in pieno Occidente, sono abituati a viaggiare sin dall’infanzia sulla monorotaia della costa ionica calabrese – quella che arranca tra Reggio Calabria e Taranto, per intenderci – a bordo della romantica littorina vintage che attraversa i ponti in cemento armato allacciati da una fiumara all’altra all’epoca del Duce. Per sentirmi davvero a mio agio avrei dovuto optare per il vecchio treno russo che taglia il Paese da un capo all’altro senza il conforto dell’aria condizionata, ma la prospettiva di cuocere in un altoforno con picchi di 57° in pieno deserto ha fatto desistere persino una retriva come me. Sta di fatto che a Samarcanda ci sono arrivata dopo averla vagheggiata da bambina, nelle fiabe predilette, e poi ancora studiata e approfondita con l’occhio erudito dell’orientalista, la passione dell’archeologa, l’ascolto della lettrice che scrive a sua volta. Insomma, a fronte di un bagaglio tra i più spartani di sempre, a Samarcanda ci sono arrivata con un carico emotivo consistente, stratificato e allacciato alla schiena sulla scorta di stereotipi più o meno veritieri. Gli stessi che ogni viaggiatore porta addosso suo malgrado, in attesa della smentita o della conferma definitiva.
Samarcanda era lì ad attendermi come l’Angelo della Morte. Stessa amara ironia. Afrasyab, Maracanda, Samarcanda e l’intero corollario di maioliche turchine, piò o meno autentiche, incastonate nello splendore lucente delle madrase e delle moschee se ne stavano lì, beffarde, davanti allo stupore di un’Alice nello specchio, oltre la superficie del quale risultava sempre più difficile distinguere il reale dall’immaginario. La città conquistata da Alessandro Magno, che ne fece gloriosa satrapia achemenide; la fortezza lungo la Transoxiana, croce e delizia dei califfi arabi e dell’impero mongolo di Gengis Khan; la capitale del raffinato Amir Timur, alias Tamerlano il Grande, che per vestirla di sfarzo chiamò a corte i più grandi architetti e artisti del mondo islamico; lo snodo nevralgico dei commerci lungo la Via della Seta, tra la Cina e il Mediterraneo, si stagliava in tutto il suo mistero davanti al mio sguardo sognante.
Ecco il “sogno color turchese” di cui parla Franco Cardini nelle sue smaliziate ricerche!
“Samarcanda avrebbe davvero potuto conquistare il mondo: ed è irrilevante se ciò sia verosimile o meno, se sia vero o no. Samarcanda è la struggente violenza della fantasia che fa aggio su una realtà lontana e avvolta nelle nubi di sabbia del deserto. Samarcanda. La lontananza irraggiungibile, l’interminabile viaggio, la cavalcata della vita in compagnia della morte, il destino”.
Così, mentre gli ultimi raggi del tramonto bagnavano la triplice struttura del Registan, il mondo attorno a me si staccava dall’inganno baluginante delle facciate per lasciarmi sola, al centro della consapevolezza. Circondata dai frantumi del potere, delle ideologie, delle sovrastrutture, dei cliché, di un mondo franato sulle cui macerie si provano a ricostruire immaginari e sogni nuovi, nuove favole della buonanotte. Accerchiata dalla contemporaneità di un posto che ha perduto se stesso o forse non si è mai trovato, come talvolta accade agli spazi sconfinati della storia e della geografia umana, io stessa mi sono accasciata sulla soglia delle piccole celle sacre violentate dal ciarpame per turisti, al cospetto di fontane pirotecniche e giochi di luci, incredula nel distinguere in lontananza un ritornello tristemente familiare: “…gente di mare, che se ne va… dove gli pare, dove non sa…”. La voce di Umberto Tozzi riecheggiava al centro dello spiazzo dalla playlist di una piccola sala da barba. Una minuscola barberia ricavata là dove un tempo qualche mistico dalla barba non rasata intonava il richiamo alla preghiera islamica, l’adhan proibito dalla modernità.
“Oggi i problemi di Samarcanda appaiono simbolicamente sintetizzati dai suoi monumenti rivestiti di piastrelle splendidamente smaltate di turchese […] e dai tre sistemi alfabetici – il cirillico, il latino e l’arabo – che sempre di più si contendono le scritture esposte, la segnaletica stradale e i graffiti: sintomo e specchio della lotta tra chi ancora e nonostante tutto guarda alla vecchia colonizzatrice che ha legato l’Uzbekistan all’Europa, chi vorrebbe invece giocare sino in fondo la carta dell’occidentalizzazione […] e chi infine intende lottare per l’islamizzazione della Modernità anziché per la modernizzazione dell’Islam”.
Provando ad accostare la citazione di Cardini al pensiero dell’antropologo francese Marc Augé, scomparso da poco, e sostituire il nome Samarcanda con quello di altrettante città, province e paesi di casa nostra, anch’essi in via di un qualche “sviluppo” e processo di omologazione, le conclusioni si proiettano facilmente su scala universale. Il viaggio fisico e metafisico tra i luoghi leggendari e i “non luoghi” di Augé è un percorso di breve distanza. Entrambi fluttuano sulla superficie dell’apparenza. Entrambi prendono le mosse da certe mitologie d’Oriente e d’Africa per approdare alla soglia del nostro vivere, allo svolgersi in chiave usa e getta delle nostre quotidianità evolute. In questo gioco di specchi la “Magic City” di Tashkent, riproduzione in scala del volto peggiore del consumismo occidentale, sta sullo stesso piano dei grandi centri commerciali, degli autogrill e, in senso più ampio, degli spazi oggetto di afflusso e consumo di massa, ovvero dei “non luoghi” dominati dall’assenza di identità e relazioni sociali.
Se il treno Tashkent-Samarcanda galoppa come il discepolo sufi tra rispettive e opposte mitologie, la littorina che mi passa sotto casa costeggia la narrazione stantia della Statale 106 e della Magna Grecia. I fasti di una terra che fu e non è più, dove la linea d’asfalto delle marine disegna la traiettoria dei “non luoghi” per antonomasia, ai quali in tempi più recenti fa eco l’altrettanto stucchevole narrazione dei borghi in collina, anche loro sospesi tra mito e realtà. No, non è poi così lontana Samarcanda.