E se rileggessimo (o leggessimo per la prima volta) autori come Friedrich Nietzsche e Luis-Ferdinad Céline? Se riprendessimo in mano La nascita della tragedia (1872), Al di là del bene e del male (1886) o, meglio ancora, Viaggio al termine della notte (1932), riusciremmo a trarne un antidoto efficace – terapia d’urto – contro il dilagare del nuovo moralismo? Esiste la possibilità, quanto meno per l’artista, di esercitare liberamente lo scandalo e il dissenso senza incorrere nella gogna mediatica? C’è un’effettiva possibilità di reagire al parossismo nel quale si è cacciato il “politicamente corretto” col suo corollario di sintomi – “cancel culture”, revisionismo esasperato – oppure, non ci resta che soccombere alla dittatura di una società tutta rose e fiori?
Una società eroica, di sani principi. Concentrata sulla forma che precede e sublima il contenuto al punto di reificarlo, spacciandolo per diritto acquisito. Assorta nella riscrittura di un dizionario salvifico, decisamente più adeguato alle sensibilità odierne. Infarcito di parole carezzevoli e rassicuranti, all’interno del quale trovano spazio resilienze, fioriscono inclusività e il sole bagna ogni pagina che fuoriesce dal ventre oscuro della stampa. Un vocabolario in cui parole come “grasso”, “nano”, “piccolo”, “brutto”, “nero”, vengono opportunamente rimosse dalle opere letterarie oltre che dal linguaggio comune. No, non chiamatela censura! Sarebbe un’altra insopportabile blasfemia. Una parola violenta, inopportuna, di quelle che fanno storcere il naso ai revisionisti di cui sopra.
Gli stessi che dopo il caso di rimozione bellamente applicata ai libri dello scrittore Roald Dahl, dai quali è sparito ogni riferimento al genere, alla razza e al peso, stanno per far calare la scure anche sui gialli di Agatha Christie. Ne dà fiero annuncio l’editore HarperCollins, precisando che le opere di “Lady Mallowan”, a partire dai Dieci piccoli indiani, verranno sottoposte allo sguardo inquisitore di un plotone di “sensitivity readers”, un comitato di neo-professionisti assoldati per leggere e censur… ops! volevo dire “individuare parole e contenuti potenzialmente offensivi” che si annidano tra le pagine del Novecento, con buona pace degli autori (cui è concesso il cattivo gusto di rivoltarsi nella tomba). Addio a parole quali “ebreo”, “zingaro”, “orientale”. La parola “nativi” sarà sostituita da un più neutrale e amichevole “del luogo”.
“Quando i grandi di questo mondo si mettono ad amarvi, è che vogliono ridurvi in salsicce da battaglia… È il segnale… È infallibile. È con l’amore che comincia”. Così ci allerta Céline nel suo Voyage.
Siamo ancora sicuri di procedere verso la luce della salvezza? In tutta sincerità, sono convinta del contrario. Se non altro perché così facendo si rischia seriamente di svuotare l’arte della vita e viceversa, “séparer l’homme de l’artiste” per attingere a un’immagine iconica di protesta, privando noi stessi dell’incomparabile privilegio (e divertimento) di ridefinire i contorni della vita e della morte, le convenzioni, la scala dei valori e dei cliché che puntualmente l’umanità tende a cucirsi addosso come l’etichetta di un abito alla moda. Casomai l’opposto, il disgusto per l’etichetta e l’omologazione quale principale strumento per affermare la propria diseguaglianza, ovvero la naturale differenza fra gli uomini (e per uomini intendo i generi tutti, appartenenti a quello super partes che è il genere umano). Rivendicare nella vita come nell’arte i caratteri naturali di diseguaglianza, disallineamento e alterità, percepiti ormai come disvalori, restituirebbe a una società sbilanciata verso l’apollineo quel brivido di sovversione dionisiaca al quale non è più abituata. Rompere gli argini, a costo di frantumare il sentire comune e fare cartastraccia dei dizionari e delle nuove tassonomie caldeggiate come “cosa buona e giusta”.
Sul piano della narrazione, la ricerca spasmodica dell’eroe e, ancor più, dell’eroina – massima espressione del femminile arrembante, protagonista di epopee che rincuorano grandi e piccole donne – sembra essere la prospettiva di un orizzonte letterario e drammaturgico ripiegato sul biografismo, sulla scia di un’onda emotiva che cavalca il belpensiero e ammicca al suo fruitore. Anche nel momento in cui prova a scollinare e passare dall’altra parte, quella altrettanto stereotipata dell’antieroe brutto sporco e cattivo, l’eroe contemporaneo non si libera mai fino in fondo del suo ruolo di moralizzatore, del mantello e dei superpoteri dei quali lo ha investito la società. Questo Cattivissimo me, questo Joker da strapazzo, questo Hercule Poirot sottoposto a censura, che parla e pensa come i “sensitivity readers” gli impongono di parlare e pensare, tutti questi eroi decaduti vestono i panni di una nemesi che non è credibile. Sono in fin dei conti eroi imperfetti, byroniani, né carne né pesce, parodie di loro stessi. Non fanno altro che sbattersi fino all’ultima cellula per rientrare nei ranghi del paradiso perduto, con la pretesa di indurci a credere il contrario.
Piuttosto, chiediamo indietro l’antieroe nei suoi panni autentici. Riabilitiamo la cattiveria fine a se stessa, il cinismo, il nichilismo, la cialtronaggine, il diritto di fare la guerra, l’esercizio della forza bruta, della violenza fisica e verbale quali motrici dell’universo a partire dalle sue origini. Del resto, se è vero che l’antieroe è l’altra faccia della medaglia, tanto da incarnare gli istinti più infimi e veritieri del lettore/spettatore che assiste alla narrazione/messinscena, allora lo si condanni alla scarnificazione. Lo si mandi agli inferi con tutte le scarpe, là dove non esiste l’antimorale ma solo l’amoralità. Non si tratta semplicemente di occupare la casetta di marzapane di Hänsel e Gretel e trasformarla nella Casa di carta, costringendo al subaffitto i due fratellini, e neppure di mandare in soffitta Giovanni Verga con tutti I Malavoglia (come suggerisce chi, di questi tempi, va dove lo porta il cuore) né, tanto meno, archiviare i vinti e gli avventurieri della letteratura picaresca, Don Chisciotte in testa. Si tratta, semmai, di un ribaltamento prospettico che ci costringe a uscire dalla bidimensionalità alla quale siamo avvezzi. Un trauma in piena regola, capace di spezzare il legame empatico e l’immedesimazione che intercorre tra il personaggio e la persona. Non più attrazione o repulsione, banale tifoseria tra “buoni” e “cattivi”, ma il supplizio del dubbio eterno. Lo stesso che tormenta Giasone e Ferdinand Bardamu, quando nel Voyage quest’ultimo osserva:
“Però non sarebbe poi tanto male se ci fosse qualcosa per distinguere i buoni dai cattivi”.
Ecco, questo è il non-eroe che mi piacerebbe vedere all’opera. Un soggetto capace di agire senza alcun freno inibitore ma soprattutto senza alcuna finalità catartica, revisionista, pedagogico-educativa, moralizzante. Un bruto allo stato di natura. Un destabilizzatore in purezza, il cui operato prescinda da ogni sorta di sovrastruttura e metta in crisi le certezze entro le quali ci siamo trincerati e che abbiamo la presunzione di consegnare ai nostri figli (possibilmente edulcorate). Un campione di incoerenza. Un agitatore contro la dittatura del pensiero unico, capace di scaraventarci nell’anarchia di quello plurale, non addomesticato.
“Lo si può immaginare divenuto fumatore di oppio, alcolista o atassico, o con moglie e figli i quali andranno al College a Melbourne oppure convertito alla religione cattolica. Questo non ha alcuna importanza. D’altronde questa storia è assolutamente noiosa. Fortuna che è finita. Che vi piaccia o no, io me ne fotto”.
(Raymond Queneau, “Racconti e ragionamenti”, 1981).