Nell’era della scrittura artificiale

L’idea che l’intelligenza umana potesse un giorno concepire e mettere in atto l’artificio di se stessa è stata materia di dibattito e sogno proibito per generazioni di scienziati, filosofi, ingegneri, registi, scrittori e visionari che, nel tempo, a partire dal dispositivo “Enigma” in grado di decifrare i codici di guerra (1932), l’hanno perseguita e affinata sino a consegnarcela in una forma piuttosto compiuta.

L’intelligenza /ar·ti·fi·cià·le/, ovvero “ottenuta con accorgimenti o procedimenti tecnici che imitano o sostituiscono l’aspetto, il prodotto o il fenomeno naturale”, al pari di qualsiasi elemento posticcio, dal parrucchino ai fiori di plastica, esercita la propria funzione spicciola di “sostituto”, tappabuchi, per sopperire a una mancanza (di tempo, idee, capelli o fioriture di stagione). Per sua stessa definizione l’artificio non è in grado di soppiantare l’originale in natura, sicché ricorrere a tale giustificazione per tranquillizzare gli animi di buon senso che temono il colloquio a vita con una chat è un’emerita ovvietà.

Ad ammetterlo è l’artificio stesso, che lo scorso mese di marzo chattando col padre della linguistica generativa, Noam Chomsky, alla domanda se sia giusto o sbagliato per l’essere umano chiedere a un’intelligenza amorale di prendere decisioni morali, ovvero sostituirsi all’uomo, ha candidamente risposto:

“Come intelligenza artificiale, sono un modello di apprendimento automatico addestrato su grandi quantità di dati di testo e non ho esperienze o sentimenti personali. Non sono cosciente, autocosciente o capace di avere prospettive personali. Posso fornire informazioni e analisi basate sui dati su cui sono stato formato, ma non ho la capacità di formarmi opinioni o convinzioni personali”.

La chat ha restituito l’ovvietà di cui sopra confermando, qualora vi fossero dubbi, l’insostituibilità della natura misteriosa di cui è fatto l’uomo, del suo intelletto e, ancor più, della sua materia spirituale, sensibile e creativa. La vera preoccupazione, semmai, è un’altra. Richiama le visioni labirintiche e i luoghi totalmente artificiali di Jorge Luis Borgues (si legga, ad esempio, il racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, parte della raccolta Finizioni, 1940), che in tempi non sospetti paventava il rischio di “svilire l’etica incorporando nella tecnologia una concezione fondamentalmente errata del linguaggio e della conoscenza”. Errata, ecco il punto.

Finta, falsata, nella misura in cui alla forma artificiale di intelligenza è richiesto di attingere a qualcosa che non sia, come lei stessa ha precisato per bocca del bot, “grandi quantità di dati di testo” ma piuttosto “esperienze o sentimenti personali”, ovvero il bagaglio di “conoscenza” essenziale che è alla base della sensibilità creativa e immaginifica dell’essere umano. Ragion per cui se ha senso chiedere all’ordine binario di restituirci informazioni e analisi in forma più o meno articolata, non ne ha alcuno confidare nella possibilità che un dispositivo ci restituirca una qualsiasi forma d’arte o creazione d’intelletto – letteraria, poetica, fotografica, pittorica, musicale, filosofica, teologica, politica – che possa davvero considerarsi tale, poiché priva “della stessa materia di cui sono fatti i sogni”, per dirla con Shakespeare.

“Non sono cosciente né autocosciente”, risponde il bot al linguista, dunque è incosciente da parte umana affidargli il compito della creazione a qualsiasi livello la si consideri. Altrettanto incosciente reputare i suoi prodotti frutto di una composizione verosimile, valevole, affidabile, qualificata, se non addirittura artistica. Le restituzioni dell’artificio (testuali, visive, sonore, ecc.) sono esito di un comando, un’indagine su un set preformato di dati e nulla più, per quanto accurati ed esaustivi essi siano. Convincersi che siano frutto di creazione e spacciarle per tali, nuova panacea, è una pericolosa menzogna oltre che una premessa di illecito. Che in virtù di tale menzogna l’artificio si sostituisca gradualmente all’opera dell’uomo in tutti i campi dello scibile, dalle scrivanie all’altare, è un altrettanto pericoloso rischio.

Il rischio eterno, temuto dalla società e puntualmente realizzatosi a ogni scatto in avanti dal progresso tecnologico, della sostituzione uomo/macchina in virtù dell’utopistica liberazione dell’uomo dalla macchina. Un paradosso epocale, che porta l’intelligenza umana alla sua stessa sostituzione pur di emanciparsi dagli automatismi e dalla fatica psicofisica, salvo soffrire lo scambio al punto di ricercare forme di anacronistici “ritorni al futuro”, alla terra, alla natura e a una manualità altrettanto esasperata.

Nel mondo di Alice allo specchio, lo scrittore si trasforma in dettatore (di dati, algoritmi, sequenze, istruzioni, ecc.) e le parole magiche che prima evocava al pari di un sacerdote con le potenze alchemiche, creando mondi e dimensioni parallele, si tramutano in un set di keywords, “parole chiave”, utili a istruire l’intelligenza artefatta a trovare risposte in un mondo chiuso e ben circostanziato. Nella dimensione infinitamente finita di 0-1, bianco-nero, pillola rossa-pillola blu. Nella tana del Bianconiglio.

La questione predittiva si fa questione filosofico-esistenziale, chiamando in causa la capacità di discernimento tra vero e falso, morale e amorale, fiducia nella risposta di ciò che per definizione è artificio.

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