Paolo Volponi, un outsider dentro il suo tempo (omaggio nel centenario della nascita)

Il mio incontro personale con Paolo Volponi, per l’esattezza con Il pianeta irritabile (1978), avviene nel segno del destino. Il “segno” è la parola esatta poiché, chissà per quale astrale motivo (forse per la raganella in copertina), quell’edizione Einaudi attira la mia attenzione bambinesca tra le decine di volumi che riempiono la libreria di casa, tanto da eleggerla tavolozza dei primi, rudimentali, tentativi di ritrattistica (come si evince dalla foto). Stando alla versione ufficiale avevo poco meno di un anno, ero pigra nel camminare ma svelta nel parlare e, a quanto pare, nell’impugnare la penna e confrontarmi con una delle voci più interessanti e visionarie della letteratura del Novecento.

Qualche anno dopo, conquistata anche la piena facoltà di lettura, avrei scambiato le parole “irritabili” di quel pianeta per quelle di una fiaba:

“Epistola non divagava e aveva già provveduto a rimandare Roboamo al punto di prima con l’ordine di aspettare il ritorno dell’oca. Egli e il nano sarebbero rimasti nell’apparecchio e lì avrebbe dovuto raggiungerli l’elefante appena l’oca fosse tornata o quando lui l’avesse richiamato spendendo tutt’insieme tre nuvolette di polvere”.

Salvo comprendere in età matura che se pure di fiaba si tratta, la dimensione distopica verso cui ci proietta è quella di un tetro scenario post-apocalittico, nel quale le figure zoomorfe e deformi, sopravvissute al disastro bellico che ha spazzato via anche il circo nel quale erano schiavizzate, si aggirano come caricature grottesche dell’umano. Di quell’umano che è venuto meno al patto di armonia con se stesso e con la natura, sopraffatto dalla tirannia di bestie e mostri che lui stesso ha generato. Scimmia evoluta, poi involuta.

Dunque l’inquietante combriccola composta da un babbuino, un elefante, un’oca e un nano lavorava in un circo… non so a voi, ma a me ne fa venire in mente una di assai simile congerie, dove la scimmia e il nano sono affiancati da altri compagni circensi in fuga dai nazisti, all’inizio della Seconda Guerra Mondiale. Se la premiata ditta Mainetti-Guaglianone abbia attinto o meno all’universo volponiano nel confezionare Freaks Out (film del 2021) non saprei dirlo, fatto sta che le schegge di quel “pianeta” sono esplose nell’immaginario collettivo in una miriade di frammenti e che, in tanti, senza mai citare l’originale, ne hanno raccolto un pezzettino a proprio uso e consumo.

I due premi Strega conseguiti con La macchina mondiale (1965) e La strada per Roma (1991) non sono bastati a sdoganare la letteratura distopica di Paolo Volponi presso il grande pubblico, quasi sempre “grande” in numeri ma “piccolo” nei contenuti. A poco è valso anche il suo pluriennale impegno politico da parlamentare e membro del PCI, oltre che senatore della Repubblica, nel sollevare questioni ancora attuali sul ruolo della cultura in Parlamento e nella realizzazione della società (Parlamenti, 2011).

L’urbinate Volponi resta ad oggi un outsider della letteratura italiana, nella misura in cui i suoi scritti e la sua personale biografia generano un autentico cortocircuito tra mondi: figlio di un’Italia contadina e proletaria, partigiano, poi tra i più stretti collaboratori di Adriano Olivetti, del quale abbracciò subito l’ideale utopico della “tecnologia dal volto umano”, condividendo lo spazio avanguardistico della fabbrica di Ivrea quale vera e propria “Città del Sole”.

È su questi poli, dialetticamente opposti, che si regge l’originale cifra stilistica di Volponi, scrittore visionario che non esito a definire sintesi perfetta fra i due coevi e più nazionalpopolari Calvino e Pasolini, con i quali pure intreccia relazioni (qui mi tocca riaprire la parentesi infantile dell’inizio e informarvi che Il sentiero dei nidi di ragno, opera di Calvino del 1947, stava nella libreria di cui sopra, proprio accanto al “pianeta” e con identica grafica Einaudi. Va da sé che subì la stessa sorte, a testimonianza dell’intimo legame tra i due scrittori). Se in un precedente omaggio, della coppia di “litiganti” Calvino-Pasolini (Calvino e Pasolini nell’Italietta postmoderna) ho sottolineato le frizioni spesso caustiche, il ricordo di Paolo Volponi mi offre l’assist per ricongiungerli in una figura terza, la sua. Come a dire, fra i due litiganti il terzo… tira fuori tutti. E porta tutti in un altro mondo. Un post-mondo, dove ogni cosa è compiuta e al genere umano non resta che raccogliere i cocci.

Voce fuori dal coro, eppure completamente calata nel proprio tempo, quella di Paolo Volponi torna oggi a sussurrarci che “il mondo come lo conoscevamo non esiste più: piove da sempre” e che la scrittura “non deve rappresentare la realtà ma deve romperla […] non si può fare stando seduto socialmente, accomodato, ma esige quella stessa attenzione che si adopera nell’innamoramento, quella stessa attenzione con la quale ci si accinge a studiare, a scoprire le cose e le persone nuove […] non per narrare, che vuol dire sistemare, curare, ma contribuire, nelle sue libere forme, al dibattito”.

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