Questa la citazione shakespeariana, tratta da Enrico IV, in esergo a uno dei capolavori più rappresentativi di Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta (1961).
“Come la civetta è animale notturno e diventa oggetto di meraviglia se di giorno compare, così la mafia va perdendo in Sicilia le sue caratteristiche notturne per comparire alla luce del giorno”.
In questo modo lo scrittore di Racalmuto, tra gli intellettuali più europei e cosmopoliti del Novecento, proietta per la prima volta la mafia sulla scena letteraria nazionale. La mafia che dal mondo agrario passa agli appalti, alle grandi commesse, agli apparati di comando. Quella che si pone improvvisamente in piena luce, come un uccello di tenebra appollaiato sul ramo del buongiorno.
Ah…no, dite pure voi che la mafia non esiste, che è un “falso storico”, come si è sentenziato? La pensate alla maniera dell’eccellenza illustrissima che dopo l’omicidio del Colasberna disse ai suoi: “Noi due, siciliani, alla mafia non ci crediamo: questo, a voi che a quanto pare ci credete, dovrebbe dire qualcosa. Ma vi capisco, i pregiudizi sono duri a morire. Col tempo vi convincerete che è tutta una montatura”.
Del resto, noi che alla mafia ci crediamo, dove eravamo quando il povero imprenditore, reo d’aver rifiutato la “protezione” d’una rispettabile guardianìa, si accasciava ai piedi della corriera mattutina come un sacco vuoto? Eravamo tra coloro che la guardianìa l’accettavano di buon grado, la tacevano per quieto vivere?
“L’autobus stava per partire, rombava sordo con improvvisi raschi e singulti. La piazza era silenziosa nel grigio dell’alba, sfilacce di nebbia ai campanili della Matrice: solo il rombo dell’autobus e la voce del venditore di panelle, implorante ed ironica. […] L’ultima occhiata che il bigliettaio girò sulla piazza colse l’uomo vestito di scuro che veniva correndo […]. Si sentirono due colpi squarciati: l’uomo vestito di scuro, che stava per saltare sul predellino, restò per un attimo sospeso, come tirato su per i capelli da una mano invisibile; gli cadde la cartella di mano e sulla cartella lentamente si afflosciò”.
Ciò che seguì a questo incipit filmico, tra i più belli della letteratura d’ogni tempo, lo sappiamo bene, anche se “noi ci crediamo assolti”. Seguì un fuggifuggi generale, che il povero maresciallo – né più né meno di un ingrato Montalbano, che a Sciascia deve vita, morte e panelle – non seppe arginare. Di più, lo stesso panellaro, alla domanda se per caso avesse visto qualcuno sparare in una piazza vuota se ne uscì chiedendo, “Perché, hanno sparato?”. Tanta è la meraviglia dell’apparire della civetta in pieno giorno, che non teme d’esser vista perché sa che nessuno ne darà testimonianza.
E se pure il confidente ci fosse, non sarebbe preso anche egli tra l’incudine e il martello?
“Ma tra mafia e carabinieri, le due parti tra cui muoveva il suo azzardo, la morte poteva venirgli da una parte sola. Da questa parte non c’era la morte, c’era quest’uomo biondo e ben rasato, elegante nella divisa; quest’uomo che non gli faceva pesare disprezzo e pure era la legge, quanto la morte paurosa […]. Che la legge fosse immutabilmente scritta ed uguale per tutti, il ‘confidente’ non aveva mai creduto, né poteva: tra i ricchi e i poveri, tra i sapienti e gli ignoranti, c’erano uomini della legge; e potevano, questi uomini, allungare da una parte sola il braccio dell’arbitrio, l’altra parte dovevano proteggere e difendere”.
Più che mai attuale Sciascia, in questo centenario, tanto da domandarsi se oggi avrebbe scritto a favore di Antigone, condannata dall’eterna contrapposizione Legge Vs Giustizia, e se, per contro, avrebbe denunciato l’ennesima astuzia volta a negare l’evidenza sotto il sole: la civetta diurna, che si aggira indisturbata.