Vivere per addizione e altri viaggi non è solo il titolo di un romanzo. È una filosofia di vita, un sentimento del divenire che arricchisce chi, costretto a lasciare la propria Terra, mette radici “aggiuntive” in altri luoghi, sprigionando il surplus di nutrimento che ne deriva nella fioritura di nuovi germogli.
L’immagine evocata da Carmine Abate durante il piacevole incontro di oggi, alla Libreria Ubik di Catanzaro Lido per l’edizione rinnovata de La festa del ritorno (Mondadori, 2014), è quella autobiografica del melo: un felice innesto di mele del Trentino, sua regione adottiva, su una tenace pianta di Calabria. “Tenere un piede al nord, uno al sud e la testa al centro” dice Abate, con lo sguardo affabile e la cadenza antica della lingua arbëreshë, che induce un orecchio poco allenato all’inganno con quella sarda.
E nel racconto di questa festa, che è il ritorno di un padre emigrato attraverso gli occhi del suo bambino, confluiscono i sentimenti autentici e i motivi forti, viscerali, di un sentire e scrivere “da calabresi” nel quale mi ritrovo. Si tratta di emozioni e narrazioni non stereotipate, che non cedono alle facili lusinghe del sensazionalismo per raccontare le contraddizioni e la complessità di una Terra dolceamara come la Calabria. Negli ingredienti del suo impasto a lenta lievitazione, che profuma di olive e sardella anche quando lo racconta, lo legge – occhi negli occhi col suo pubblico, come un attore in scena – trovano posto tutti gli elementi sociali e antropologici della cultura mediterranea: da quelli arcaici e tragici (intesi nell’accezione greca di τραγῳδία); a quelli più propulsivi, quali il senso del viaggio, del ritorno, del riscatto. L’autenticità del quotidiano contempla anche l’ombra lunga e violenta della ‘ndrangheta, senza però gettarla in pasto a un pubblico e a una critica che, sempre più spesso, si lascia travolgere da pugni allo stomaco sferrati più per far scena che non per volontà d’affondo nella dimensione attuale.
I nuclei familiari, le comunità, i profili singoli, tratteggiati dal linguaggio “sporco” e contaminato di Abate, restituiscono con dignità verista i mille volti e le sfaccettature di un territorio fiero e antico che, da sempre, è luogo d’approdo e di partenza; oltre che “spazio letterario” – come si è sottolineato nell’incontro – all’interno del quale sperimentare nuove espressioni narrative e rappresentative. Da scrittrice in erba, ho appreso con interesse anche il modo e la forma con cui ci si accosta a un proprio scritto a distanza di anni “come fosse il libro di un altro”, rileggendolo con occhi nuovi, limando o ampliando a seconda delle ridondanze o dell’inespresso.
La chiave di lettura, il solco tracciato da Carmine Abate – che è sempre un piacere ascoltare dal vivo, per la spontaneità con la quale si racconta e ci racconta – è una traccia preziosa per chiunque desideri cimentarsi con la scrittura delle radici, dell’identità e dei luoghi, “addizionando” le esperienze e lo sguardo esterno all’interiorità delle proprie origini.