Nakba, l’eterna “catastrofe” dei palestinesi. Uno sguardo letterario

Nakba, l’eterna “catastrofe” dei palestinesi. Uno sguardo letterario

La data del 15 maggio 1948 è impressa a fuoco sulla pelle dei palestinesi lasciati cuocere al sole del deserto. Gli Uomini sotto il sole (1963) di cui narra lo scrittore palestinese Ghassan Kanafani (assassinato a Beirut nel 1972 dal Mossad, i servizi segreti israeliani), durante l’esodo dei 700.0000. Sfollati, strappati alle pareti domestiche dai soldati dello Stato di Israele, autoproclamatosi il giorno prima.

Il 15 maggio è una delle date più sciagurate dell’umanità, in cui la storia d’Oriente e d’Occidente si intrecciano per capovolgersi, trasformando le vittime in carnefici e viceversa.

Il 15 maggio è l’incarnazione plastica di una “catastrofe” (questo significa, alla lettera, la parola araba nakba) perpetuata sino ai nostri giorni, col genocidio di Gaza e l’esodo degli oltre 300.000 da Rafah.

Se gli Uomini di Kanafani – i protagonisti Abu Qais, il giovane Asad e Marwàn – trovano la morte asfissiati in un’autocisterna, nel tentativo di passare il confine col Kuwait attraverso l’inferno del deserto iracheno, le donne, i vecchi e i bambini di cui narra la scrittrice palestinese Susan Abulawa periscono nottetempo, abbandonati a loro stessi, nel ritaglio di rena destinato a diventare il campo profughi di Jenin (Ogni mattina a Jenin, 2006).

“Il povero piccolo mondo si apriva la strada attraverso il deserto come una goccia d’olio pesante su una lamiera di stagno infuocato. Il sole era alto sopra le loro teste, rotondo, fiammeggiante e splendente. Nessuno di loro si curava più di asciugarsi il sudore. Asad si mise la camicia sopra la testa, raggomitolò le gambe e lasciò che il sole lo arrostisse, senza opporre resistenza; Marwàn, invece, appoggiò la testa sulla spalla di Abu Qais e chiuse gli occhi”. 

Alle voci dei tre in attesa di crepare nel deserto iracheno fanno eco, dal campo di Jenin, le parole di Dalia, che ha appena smarrito il suo piccolo tra la folla, nonno Yehya e Yussef:

“[…] si sedettero per terra nella vallata. Il paesaggio era sereno e magnifico come sempre. Alberi, cielo, colline e pietra erano immutati ma le persone erano sconvolte e silenziose.  […] Nel dolore di una storia sepolta viva, in Palestina l’anno 1948 andò in esilio il calendario, smise di tenere il conto di giorni, mesi e anni per diventare solo foschia infinita di un preciso momento storico. […] Gli anziani di ‘Ain Hod sarebbero morti profughi nel campo, lasciando ai loro eredi le grosse chiavi di ferro delle dimore avite, i friabili atti catastali compilati dagli ottomani, i certificati erariali del mandato britannico, i propri ricordi e l’amore per la terra, e l’impavida volontà di non permettere che lo spirito di quaranta generazioni restasse intrappolato in quel complotto di ladri”.

Ladri è la parola giusta. Quella che identifica noi tutti, complici con la coscienza sporca di Olocausto, del grande “regalo da parte di chi non possiede a chi non merita”.

Il vile inganno ce lo racconta chi li vide (ci vide) arrivare da mezza Europa, gli sbarcati da Auschwitz, non riuscendo a credere ai propri occhi, alle proprie orecchie, alla Tv e ai giornali:  

[…] anche un bambino avrebbe capito che il sogno di creare un paese al posto di un altro era pura follia. Le strade, la gente, la terra, la Storia, la regione, tutto rendeva il sogno impossibile. Era ridicolo. Eppure, anno dopo anno, i segni si sono inspiegabilmente invertiti, lo stato ebreo è diventato realtà e loro, popolo palestinese, fantasmi. Si sono scambiati i posti, un corpo via l’altro“.

Così ricorda a se stesso L’amante palestinese (2011), dello scrittore Sélim Nassib (nato a Beirut da una famiglia ebraica di origine siriana).

Le storie dei sopravvissuti alla Nakba di ieri si cuciono addosso a quelle dei sopravvissuti alla Nakba di oggi.

Al massacro di Sabra e Chatila (1982), a centinaia di carneficine e soprusi quotidiani ai danni di un popolo tradito, vilipeso, torturato, vittima di genocidio sistematico, tenuto in stato di prigionia permanente in casa propria, in regime di apartheid, e persino fuori dalla propria casa. Alle voci dei vivi e dei morti di Gaza, reduci da un’eterna Nakba.

Sono voci di un popolo che r-esiste malgrado gran parte del mondo occidentale, e parte di quello arabo, lavorino scientemente per consegnarlo all’estinzione. Uomini e donne che, al netto della rabbia e della commozione, ci affidano la schiacciante responsabilità di non tacere.

“[…] Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano”.

Mahmoud Darwish, Profugo

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