Viaggio oltre le Colonne d’Ercole, nel seducente Marocco

Limite estremo del mondo noto e principio di quello ignoto, le Colonne d’Ercole rappresentavano per gli antichi greci tanto una linea fisica di confine, spazio geografico circoscritto a Occidente, frontiera del “mondo civilizzato”; quanto il luogo off limits del pensiero, soglia mortale della conoscenza umana di là dalla quale regnava l’imperscrutabile. Sebbene vagheggiato e mai identificato con un segno tangibile prima del monumento al Cancello degli Ebrei, il non plus ultra erculeo venne man mano localizzato a sud della penisola iberica, nello Stretto di Gibilterra. Situate in questo leggendario quanto breve tratto di mare, spartiacque tra l’Oceano Atlantico e il Mar Mediterraneo, le colonne dello scibile dovevano fronteggiarsi su due opposti promontori: l’una, presso la Rocca di Gibilterra (Calpe), nell’omonima città; l’altra, sulla cima del Monte Hacho (Abila), nella città di Ceuta (odierna Sabta, città di giurisdizione spagnola su suolo marocchino). Lo stesso toponimo Gibilterra, che in lingua araba si traduce con Jabal el-Tāriq, ovvero “Terra di Tariq”, si riferisce all’omonimo condottiero berbero nativo di Tangeri, Tāriq ibn Ziyad, che nel 711 si rese responsabile della conquista della Spagna per conto del califfato Omayyade. Scopriamo così che quell’altrove favoleggiato, croce e delizia del mondo classico, relegato oltre gli steccati del pensiero e della cultura occidentali, altro non è che il seducente universo arabo, il regno dell’Islam e del Maghreb. Quest’ultimo, a riprova di come ogni percezione sia relativa e contestuale, è a sua volta inteso dagli arabi come “Occidente d’Oriente” (Maghreb significa infatti “luogo in cui tramonta il sole”, contrapposto a Mashrek, “dove il sole sorge”, ovvero il Medio Oriente).

Proprio in questa “Isola Occidentale” (Djazirat al-Maghrib) che è il Marocco, circoscritta dall’Atlantico, dal Mediterraneo e dalle vaste distese del Sahara, decido di tornare a qualche anno di distanza da un primo viaggio che mi aveva condotta nella regione del Medio Atlante, alla scoperta delle città imperiali di Fès e Meknès. Ancora una volta il richiamo a oltrepassare le personali Colonne d’Ercole, oltre le quali la cultura arabo-islamica si fa eco di qualche mia precedente vita perduta, mi ha condotta nella terra che l’occupante francese definì “un paese freddo con un sole caldo”. Rapita, stavolta, dal palpitare senza orari di Marrakech, altra città imperiale, e dal fascino lusitano di Essaouira (Mogador), città bianca sull’oceano la cui medina è Patrimonio Unesco. Ancora una volta il mio viaggiare nei luoghi si è tradotto nel desiderio di toccarne con mano la cultura e le arti, prima tra tutte la letteratura, oltre che lasciarmi sedurre dalla malia degli odori e dei sapori intensi – che si incollano per giorni alle narici e al palato, in una memoria sensoriale a lungo termine – così come dai suoni di antica origine berbera e dall’accoglienza delle persone, del tutto uguale a quella del nostro Sud di un tempo.

La mia ricerca letteraria, volta sempre a ricongiungere le sponde del Mediterraneo nell’antica armonia perduta, varca idealmente lo Stretto di Gibilterra a bordo di un’asina, proprio come accadde alle spoglie mortali di un illustre personaggio medievale che, si vocifera, desiderò riequilibrare il proprio peso con l’equivalente di una pila di libri nel lungo viaggio che dalla città natale di Cordova, nell’allora Spagna musulmana, lo portava a Marrakech per l’estrema sepoltura. Correva l’anno 1198 e il personaggio in questione si chiamava Averroè, tra i più influenti filosofi arabi del Medioevo, fine commentatore dell’opera di Aristotele, astronomo e teologo vissuto tra Andalusia e Marocco. Il gesto significativo di consegnare a un involucro di testi preziosi il compito di bilanciare il proprio peso alleggerito dell’anima lo racconta, tra gli altri, la scrittrice Toni Maraini, nel bel libriccino Ballando con Averroè (Poiesis Editrice, 2016), che assieme al più noto dei suoi titoli, Ultimo tè a Marrakech (Edizioni Lavoro, 2000), restituisce l’immagine di un Marocco che si fa “frammento di patria universale”, tra assonanze e confluenze che servono a esorcizzare la separazione tra culture. Ne sorseggio le pagine assieme all’immancabile tè alla menta, ambrato e ben zuccherato, su una delle tante terrazze panoramiche che affacciano sull’iconica Djemaa el-Fna, la grande piazza centrale di Marrakech, che tingendosi d’imbrunire, subito dopo il richiamo alla preghiera si popola di giocolieri, incantatori di serpenti, musici e cantastorie pronti a imbastire le loro profezie da strapazzo.  

Il Marocco in una teiera (1998), parafrasando la calzante metafora che dà il titolo a una raccolta del poeta di Casablanca, Abdallah Zikra. Attorno al rituale del tè il Marocco sembra stemperare le ansie familiari e nazionali, sciogliere i nodi della storia personale di ciascuno e di quella collettiva, fatta di chiaroscuri, che alla luminosità vibrante dei colori delle maioliche e dei paesaggi sconfinati oppone l’ombra cupa del colonialismo, della modernizzazione priva di sviluppo e dello schiavismo, che proprio dalla splendente città di Essaouira, poc’anzi citata, intercettava la via degli schiavi destinati al “Nuovo Mondo” sulla rotta africana. Al luccichio degli argenti berberi e delle vesti principesche intessute di trame d’oro, contrappone l’angustia dei minuscoli ambienti dove, per pochi spiccioli, il lavoro massacrante degli artigiani prova a campare famiglie intere, numerose, talvolta confinate in una spelonca, nelle periferie delle grandi città.

Le storie di questa Storia passano per la penna di grandi poeti e scrittori marocchini e franco-magrebini che hanno saputo pennellare le contraddizioni di questo grande Paese. Sfarzo e polvere convivono nella vita come nella narrativa, tra le pagine dense e taglienti di autori del calibro di Mohammad Choukri, celebre per il romanzo autobiografico Il pane nudo (1973), e Driss Chraïbi, patriarca della letteratura maghrebina contemporanea, il primo a trattare il tema dell’identità culturale e razziale; passando per La casa del ragno (1995) e il più famoso Il tè nel deserto (romanzo del 1949 dal quale il regista Bertolucci trasse l’omonimo film), dello scrittore americano Paul Bowles, trasferitosi a Tangeri e deciso a mettere a nudo gli stereotipi dell’osservatore occidentale, intrisi di falso buonismo e orientalismo:

“Il modernizzatore offriva soltanto un posto nei ranghi. E i musulmani ora si stavano lasciando abbindolare, erano sulla via di convincersi a unirsi alla insensata marcia della fratellanza universale; per tale privilegio ognuno avrebbe dovuto rinunciare soltanto a una piccola parte di se stesso, quanto bastava perché, invece di cercare la sicurezza del proprio cuore, in Dio, si sentisse spinto a guardare agli altri. Il nuovo mondo sarebbe stato il trionfo della delusione, dove tutta l’umanità avrebbe goduto, sì, dell’eguaglianza, ma dell’eguaglianza dei dannati”.      

Non posso che concludere la mia rapida carrellata, certamente non esaustiva, col punto di vista di Tahar ben Jelloum. L’autore di Creatura di sabbia (1987) accompagna il lettore verso l’anima più autentica del Paese, in un itinerario le cui tappe sono le città, i deserti, i ricordi personali e la storia ufficiale, le leggende locali e le mitologie straniere. Da lettrice, scrittrice e viaggiatrice, mi accosto al suo sentire nel momento in cui afferma:

“Ci sono paesi che ci incantano e altri che ci maltrattano o che sono una pena per gli occhi e ci danno l’emicrania, ma è anche vero che molto dipende dalla nostra disposizione ad accogliere quello che ci viene presentato: l’anima non si dà, non si concede, non svela niente della sua intimità. È in noi o non è”.

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