Viaggio letterario nel Mediterraneo

“Quando ti metterai in viaggio per Itaca
devi augurarti che la strada sia lunga,
fertile in avventure e in esperienze. […]
Che i mattini d’estate siano tanti
quando nei porti – finalmente, e con che gioia –
toccherai terra tu per la prima volta”.

 

Questo è il viatico che ci consegna il poeta greco Costantino Kavafis, nato e morto ad Alessandria d’Egitto, a chiudere il suo personale cerchio mediterraneo. Da Itaca a Gibilterra, come a dire dalla certezza di un talamo alle inesplorate possibilità umane e letterarie. Quelle Colonne d’Ercole che per primo osò varcare un cantore cieco, Omero, per mano della sua inincasellabile creatura epica, Odisseo. Fu davvero lui il primo a spingersi “oltre” le spume? Da archeologa, prima ancora che da lettrice e scrittrice, mi sovviene il racconto del Grande Verde, come gli antichi egizi chiamavano il Mediterraneo occidentale, e di quei “Popoli del Mare” giunti da lidi sconosciuti a scompigliare le genti di quel primitivo Maghreb.

Tra questi, figurano i minacciosi shardana (Šrdn-w) né più né meno che i nostri connazionali sardi (come si evince dall’assonanza), battezzati col loro nome attuale dai sudditi del faraone Akhenaton e di Ramesse II, che si vantò di averli sconfitti quasi 1300 anni prima di Cristo. Citazioni di quando la parola scritta era ancora scolpita nella viva roccia dei templi, appannaggio di pochi eletti, ma già tanto potente da varcare i confini e tramutarsi in storia, leggenda, tradizione orale, guazzabuglio di suoni che il vento sospinge lontano, oltre il mare e le montagne.

Più lontano nello spazio, ma più vicine a noi nel tempo, giunsero le pagine speziate d’Oriente. Quelle Mille e una notte che mi sedussero da piccola, consegnando alla mia avidità di viaggiatrice in erba le avventure rocambolesche di Sindbād il marinaio, un Odisseo in versione persiana. Chissà, forse fu proprio in quell’inconscio infantile, tra figure antropomorfe e ricerche di tesori nascosti, che prese forma il mio amore per l’archeologia d’Oriente e, in un solo palpito, per la magia della parola narrata. Una fascinazione per una radice comune di civiltà. Una nenia lontana, sopita dal frastuono del tempo odierno, che con un filo di voce continua ad attraversare i deserti e il Mediterraneo per ripeterci che noi “popoli del mare” siamo ancora una cosa sola.

Non a caso il titolo del mio romanzo d’esordio, Sette paia di scarpe (Rai Libri, 2014) richiama i versi di un’antica fiaba persiana, quella del Principe Serpente, ritrovata incredibilmente, tale e quale, nei versi di una poesia di Giosuè Carducci, Davanti a San Guido, che recita esattamente la struggente profezia dell’incantesimo originale:

“Sette paia di scarpe ho consumate di tutto ferro per te ritrovare, sette verghe di ferro ho logorate per appoggiarmi nel fatale andare, sette fiasche di lacrime ho colmate, sette lunghi anni di lacrime amare, tu dormi a le mie grida disperate, e il gallo canta, e non ti vuoi svegliare”.

Koinè è la parola usata dagli antichi greci per definire una lingua comune, capace di sovrapporsi alle diverse varianti linguistiche locali, non per schiacciarle ma per renderle casomai condivisibili. La koinè culturale fu l’anima del Mediterraneo, che per millenni seppe unire parole, rituali, cibi e filosofie provenienti da ogni angolo di mondo. Un mare santo e santificato, il Mare Nostrum degli antichi romani, sulle onde del quale viaggiavano spezie, incenso, seta, ori, manifatture, materie prime, uomini, donne, sogni, speranze, epopee letterarie e versi d’amore.

Un viaggio lungo la rotta del tempo e della geografia, che nel Medioevo vide fiorire uno tra i califfati più illuminati della storia, quello della dinastia damascena degli Omayyadi, che a Cordova, in Spagna, fondò l’enclave sfolgorante di al-Andalus (l’odierna Andalusia). Un regno florido, colto, di inarrivata raffinatezza artistica, filosofica, architettonica e letteraria, capace di confezionare versi mirabili anche al femminile, purtroppo ignoti ai più. Eterna colpa è infatti disconosce la poesia libertina e sensuale di Wallada bint al-Mustafki, figlia del califfo di Cordova il cui nome significa “Colei che dà alla luce”, che in una manciata di versi ci consegna l’immagine emancipata della donna arabo-islamica del suo rango:

“Sono stata creata da Dio per la sua gloria, ma cammino orgogliosa per la mia strada”.

Colui che suggellò per sempre l’unione letteraria tra Oriente e Occidente, tanto da circondarsi di una corte e di un esercito dialoganti in doppia lingua, fu l’amato e odiato “Stupor Mundi”, l’imperatore Federico II d’Altavilla. Quale fu la “meraviglia del mondo” al cospetto del suo operato? Quella destata da un sovrano che parlava correntemente sei lingue (latino, siciliano, tedesco, francese, greco e arabo), che promosse la poesia e le lettere dal 1220 all’ultimo giorno di vita, fondando la Scuola Siciliana, prima fucina della moderna lingua italiana (con buona pace degli amici toscani!). Se a Palermo, ancora oggi, i nomi delle vie sono indicati in italiano, arabo ed ebraico lo si deve a questo sovrano illuminato, l’unico capace di realizzare la pace nel Mediterraneo delle Crociate imbracciando la sola arma della cultura, gesto che gli valse la scomunica e l’epiteto di Anticristo da parte del ben più guerrafondaio papa Gregorio IX.

Erano i tempi in cui il Sud Italia parlava arabo e gli arabi erano cittadini del Sud Italia, tanto che il poeta originario di Noto (1056), Ibn Hamdis, dedicò alla sua amata Sicilia versi struggenti di malinconia, costretto all’esilio nell’anno della conquista normanna: “Con nostalgia filiale anelo alla Patria, verso cui mi attirano le dimore delle belle sue donne”. La sua opera, dimenticata dai noi atlantisti con la memoria breve e le radici avvizzite, è stata rivalutata grazie alla passione di Leonardo Sciascia, fine conoscitore della letteratura araba di Sicilia, che nel saggio La Corda Pazza (1970) lo paragona a Quasimodo – “Nella poesia di Quasimodo il tema dell’esilio si lega amaro e dolente, ma splendido nella memoria dei luoghi perduti, a quello del poeta arabo Ibn Hamdis, siciliano di Noto” – e dal compianto Franco Battiato, che nel 2011 ne musicò alcuni versi in Diwan: l’essenza del reale. Delle influenze e delle implicazioni mistico-allegoriche che la cultura islamica ebbe su Dante e sull’architettura della Divina Commedia (la ricorrenza del numero 99, la traduzione del Libro della Scala, ecc.) non sto neppure a dire. Ci condurrebbero davvero lontano, “oltre”…

Dalla conquista normanna alla Reconquista della Spagna tutta il passo è breve. Ancora una volta le terre coinvolte si sfiorano e si intrecciano a suon di spade e di versi. Ancora una volta un autore spagnolo, tale Miguel De Cervantes di ritorno dalla Battaglia di Lepanto (1571), approda a Messina e, ivi costretto da una lunga degenza in nosocomio, finisce per dare alle stampe uno dei capolavori della letteratura mondiale: Don Chisciotte della Mancia. Ne sono prova ormai conclamata due novelle ispirate a Messina, Il dottor Vetrata e L’amante generoso, e la citazione di Colapesce (quello vero, senza Dimartino!) da parte del valente cavaliere della Mancia.

Venendo ai giorni nostri, il viaggio letterario nel Mediterraneo – ormai annichilito a sudario di umanità migrante – lacrima i versi di Federico Garcia Lorca, si perde tra le visioni e gli eteronomi di Fernando Pessoa, nelle descrizioni del Viaggio in Turchia di Corrado Alvaro e di quella stessa terra narrata da Orhan Pamuk e pennellata dai versi di Nazim Hikmet, il “rivoluzionario romantico”. Senza alcuna pretesa di esaustività, chiudo questo viaggio guardando alla Palestina, violentata e rimossa dalla carta geografica del Mediterraneo, ma viva nel sangue del suo popolo e nei versi del poeta Mahmoud Darwish:

“[…] Lo hanno rifiutato in tutti i porti,
hanno portato via il suo piccolo amore,
poi hanno detto: “Profugo!”.
Tu che hai piedi e mani insanguinati,
la notte è effimera,
né gli anelli delle catene sono indistruttibili,
perché i chicchi della mia spiga che va seccando
riempiranno la valle di grano”.

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