Sui binari del tempo

Tratto dalla raccolta di racconti ispirati a fatti reali

La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni, 2019)

Ripubblicato online in forma di “feuilleton” su Il Vizzarro, nella rubrica letteraria La voce narrante


Il fatto accadde nel mese d’agosto del 2016, mentre viaggiavo su un treno a vapore. Mia moglie e io eravamo in Calabria da qualche giorno per le vacanze estive, a sprofondare nella terra d’origine con tutte le radici, quando lessi della vecchia FCL – 353: “Il Treno Storico della Sila torna a sbuffare” titolava l’articolo. Una scintilla rischiarò per un istante l’orizzonte sfocato della memoria, senza illuminare a dovere il significato perduto, lontano, che quella notizia aveva tentato di evocare. Tuttavia, l’immagine romantica del treno a vapore che si inerpica sull’altopiano fu sufficiente a farmi cambiare il programma del weekend, con buona pace della mia consorte, per la quale un solo giorno sottratto al mare equivale a compiere un sacrilegio. Quel sabato mi alzai di buon’ora, come sempre, e misi la caffettiera sul fuoco. A ripensarci, il fischio improvviso della moka e il getto di vapore dal beccuccio mi colpirono oltremodo, ma poi il fremito passò in secondo piano, sciogliendosi nella tazza del caffè assieme allo zucchero. Nessuna anomalia. Un leggero mal di testa, forse, da imputare a un bicchiere di Magliocco in più al quale la sera prima non avevo saputo rinunciare, ma niente di strano. Nessuna avvisaglia di quanto sarebbe successo di lì a poche ore.

La località di Moccone, stazione di partenza del treno turistico nel cuore della Sila Grande, si raggiunge rapidamente imboccando la superstrada, ma siccome non avevamo fretta e volevamo goderci gli scorci suggestivi del paesaggio e le vertiginose aperture sulle conche cosentine, ci avventurammo tra i tornanti della vecchia strada che sale per Fago del Soldato. Un tempo quella via tortuosa rappresentava l’unica possibilità di risalire la montagna.

– Guarda Enrico, il treno doveva passare di qua una volta. Laggiù si intravedono i ponti ferroviari e abbiamo appena oltrepassato un binario dismesso fiancheggiato da una minuscola rimessa cantoniera. Chissà qual era il percorso originario.

– Arrivava a San Giovanni in Fiore, al confine col Marchesato e la Sila catanzarese.

– E tu che ne sai?

Non lo sapevo infatti. O meglio, fino a quel momento non sapevo di saperlo! Spensi il climatizzatore e appena calai giù i finestrini una ventata d’aria pura, frizzante come una granita alla menta, rinfrescò l’abitacolo e i miei pensieri. Giunti a destinazione, però, quella lama d’ossigeno sottile e ben affilata si ispessì con l’odore acre che accompagnava in cielo una colonna di fumo. Seguimmo la scia densa e giallastra che ci teneva per la gola, il ritmo cadenzato di ferraglia in movimento e ce la trovammo davanti oltre il piccolo edificio a calce che esibiva la scritta “MOCCONE”. La Vecchia Signora ci aspettava in tutto il suo splendore, rimessa a lucido come una donna matura e fascinosa che si è appena rifatta il trucco per un incontro galante. Nessuno avrebbe detto che era una classe 1929, gli anni se li portava da dio! Al suo cospetto un centinaio di pretendenti smaniosi, già conquistati da quel modo unico di schiarirsi la voce prima di riprendere a fischiare e fumare. Era in ebollizione, perfettamente funzionante, pronta a trascinarsi dietro i suoi tre vagoni tinteggiati di verde, separati dai caratteristici balconcini di ghisa, come un’elefantessa coi piccoli in fila indiana, la coda dell’uno allacciata alla proboscide dell’altro.

“Tutti in carrozza!” gridò il capotreno, asciugandosi il sudore dalla fronte col berretto in mano.

Era una giornata calda, inondata di luce, col sole che picchiava sin dal mattino e rendeva ancor più vividi i colori di quel convoglio tirato a lucido. La locomotiva scandiva l’attesa col suo singhiozzo, avvolgendoci in una nube di memorie. I bambini in fila pendevano dalle sue labbra, fissandola con un’espressione a metà tra il timore e l’incanto. Per qualche ora avrebbero potuto abbandonare i mostri digitali al loro triste destino, provando piuttosto a scorgere tra i boschi il profilo di un animale in carne e ossa. Mi sembrò una fortuna aver guadagnato posto sul primo vagone, proprio alle spalle della nera sagoma con la targa in bella vista e la scaletta di ferro che saliva fino in cima. Dalla mia posizione riuscivo a vedere le gocce di vapore acqueo zampillare e disperdersi in tutte le direzioni. Le carrozze erano piccoli scrigni di legno lucidato a cera, con panche spartane e ogni dettaglio al posto giusto, dai portapacchi alle maniglie per reggersi. I ritagli dei finestrini incorniciavano un panorama vivo, capace di declinare ogni sfumatura di verde. Sorrisi fra me, tradendo l’insolita eccitazione che mi portavo addosso. Mia moglie ricambiò con uno dei suoi sguardi ironici. Il fischio della locomotiva si levò come il richiamo di un animale preistorico, uno sbuffo più intenso si disperse nel blu e un sussulto anticipò il gemito del ferro che si apprestava a scivolare sul suo tappeto di ruggine. Ci muovevamo a scossoni, al ritmo circolare delle grandi ruote che sembravano montate direttamente sotto i sedili. Mentre dal finestrino scorreva un paesaggio dell’anima, il mio cuore batteva all’unisono col pulsare segreto del treno. Il viaggio tra i fianchi della montagna stava prendendo una piega inaspettata.

Rivolsi lo sguardo all’esterno ed ebbi l’impressione che qualcosa fosse cambiato: il bosco sembrava essersi infittito, una vera e propria selva, dove non c’era posto per le ampie radure dei pascoli né per i campi di patate che avevo visto inseguirsi nel tratto iniziale. Più arrancavamo in salita, più i faggi e i pini ci avvolgevano in un abbraccio intimo. Un grande ramo proteso sfiorò il treno e io assecondai l’istinto di indietreggiare. Quando mi riaccostai al vetro accadde l’imprevedibile: l’immagine riflessa nel finestrino non era più la mia. O meglio, era quella di me bambino, all’età di dieci anni. Mi avvicinai per guardare con attenzione: scrima dei capelli a sinistra, sopracciglia folte, lentiggini e la solita divisa estiva con la camicia a mezze maniche infilata nei calzoncini, quelli che tenevo su con le bretelle di cuoio. Non c’era dubbio, ero proprio io! Alitai sul vetro per schiarirlo. Niente, il piccolo Enrico era sempre lì e mi fissava imperterrito. Mi voltai per chiedere conforto a mia moglie e per poco non mi venne un colpo. Era sparita. Al suo posto c’era niente meno che…mio nonno. Giuseppe Passaniti, detto Mastru Sieppi, se ne stava placidamente seduto di fronte a me con la sua classica coppola a quadri, gli occhiali dalla montatura spessa e i baffi leggermente all’insù, ovvero, nell’unica immagine che l’inconscio aveva saputo restituirmi, pescata da chissà quale foto, essendo egli morto quando ero ancora troppo piccolo per ricordarlo. Il nonno indossava abiti da lavoro, grossi scarponi sformati e portava una grande scure a tracolla. Dalle estremità opposte del panno che l’avvolgeva fuoriuscivano l’impugnatura nodosa del manico e il bordo lucente della lama.

– Visto dove ti ha portato il nonno tuo? Si’ cuntientu Ricù?

Nessuno mi chiamava più a quel modo da anni. Mi guardai attorno per capire se anche gli altri passeggeri vedevano quello che vedevo io, ma ebbi una sorpresa ancora peggiore: l’intero vagone era piombato in un’altra epoca. Ero attorniato da famiglie, uomini e donne di tempra forte coi lineamenti scolpiti dalle intemperie e le mani ispessite dal lavoro, che si trascinavano dietro una prole chiassosa. I figli più piccoli dormivano in ceste di vimini o attaccati al seno delle madri, quelli più grandi correvano su e giù per la carrozza facendosi dispetti a vicenda. Sul sedile in fondo, una suora snocciolava il suo rosario; accanto a lei, una donna dai seni generosi metteva ad asciugare al finestrino le fasce del figlio, un bambino roseo e paffuto che se l’era appena fatta addosso. Anche gli odori a bordo erano mutati e rispecchiavano le abitudini di quella variegata umanità: il tanfo acre del carbone si mescolava al sudore, al rigurgito dei poppanti, a formaggi e salumi avvolti negli strofinacci e riposti nelle sporte accatastate sulle nostre teste. Mi alzai e corsi verso il balconcino a prendere una boccata d’aria. Nel vagone dietro il nostro sembrava tutto normale. Riconobbi alcuni dei passeggeri che erano saliti a bordo con me e mi rincuorai. Sfregai la barba ispida di qualche giorno, allungai le mani e la cenere soffiata indietro dal vento mi cadde sui palmi, minuscoli granelli di carbone si depositarono tra i peli grigi e arricciati delle braccia. Pensai d’aver bevuto davvero qualche bicchiere di troppo la sera prima, del resto vivevo un momento delicato, alla soglia dei sessanta si comincia a diventare sentimentali, qualche stranezza era concessa. Mentre cercavo di autoconvincermi mi raggiunse il capotreno, quello del 2016, che prese a raccontare con orgoglio del lavoro fatto coi colleghi fuochisti per rimettere in sesto la vecchia locomotiva e portarla di nuovo a sbuffare sui binari del tempo.

– Sicuro di sentirsi bene? Sa, tante volte gli scossoni, il combustibile…

– Mai stato meglio! Mi dica del treno piuttosto, fate ancora tutto a mano?

– Certamente! Ogni manovra a mano, vedrà. All’arrivo non c’è una piattaforma automatica per invertire la marcia, si sgancia, si rifornisce e si ruota rigorosamente con la forza delle braccia. Pensi che è una delle macchine più lente ma più potenti ancora in funzione, non supera i quaranta chilometri orari ma riuscirebbe a trainare altri tre di questi convogli fino alla vetta di San Nicola. La Signora è stata pensata per arrampicarsi quassù quando ancora la Sila era appannaggio dei poveri boscaioli che si spaccavano la schiena.

Non fece in tempo a concludere la frase che fummo ingoiati da una stretta galleria di pietra. Dalle carrozze rimaste al buio si levò un coro scomposto di urla e risate. Quando sbucammo alla luce del sole il capotreno non c’era più. Al suo posto, Mastru Sieppi indicava ai miei occhi bambini un grumo di capanne sparute tra gli alberi.

– Ricuccio, le vedi quelle baracche? Siamo a Camigliatello. Qua mo’ scendiamo, ché io m’accattu le sigarette al tabacchino e a te ti piglio n’allicca-allicca, poi fermo un minuto all’ufficio postale mu viju si nd’arrivau corchi ‘mbasciata.

Strizzo gli occhi e quando li riapro il treno è fermo nella stazione di Camigliatello Silano. Altro che tabacchino e ufficio postale! Attorno a noi alberghi e baite di lusso. A terra l’atmosfera festosa della partenza, con nuove orde di turisti pronti all’assalto.

– Sembra che tu abbia visto un fantasma. Che fai, non scendi?

Seguo mia moglie giù per la scaletta e mi fermo nello spiazzo. La fontana scrosciante è un invito che non si può rifiutare, bevo a canna lunghe sorsate d’acqua ghiacciata e mi sciacquo la faccia. Quando torniamo ai nostri posti per l’ultima tratta del viaggio mi si siede accanto una bambina. Al fischio che annuncia la ripresa della marcia, la piccola mi si aggrappa al braccio e nasconde il viso nel mio petto. Le sfioro la testa nel gesto di una carezza e subito riconosco gli occhioni vispi di mia sorella Assuntina, per tutti Susina, come il frutto. Sia ben chiaro, lei è viva e vegeta e sta meglio di me, è bella in carne e si è fatta rossa di capelli. La Susina del treno a vapore, invece, portava ancora lunghe trecce corvine e una vestina logora, che era arrivata a lei dopo aver visto crescere le altre due sorelle maggiori.

– Ch’è bedha Susina nostra, janca e russa, benidica! Ricù, la devi tenere cura a tua sorella, non come quando te ne sei andato a farti i fatti tuoi e l’hai lasciata sola nella culla, te lo ricordi? Quando tua madre è tornata alla baracca coi panni lavati, si è avvicinata alla picciridha che dormiva e ci ha trovato accanto nu serpe. Accidenti a te!

Quell’episodio l’avevo rimosso. Se qualcuno lo raccontava in occasione delle riunioni di famiglia a me suonava talmente inverosimile da non darci alcun credito.

– E quando prese fuoco il capanno degli attrezzi te lo ricordi? Fu di notte. Ci svegliammo schiantàti, tossendo, ‘ntra nu fumu nigru ca chissu è fisserìa! Le fiamme ci mangiavano.

– Sì nonno, credo di sì. Ogni volta che vedo un incendio mi viene in mente l’immagine di una lingua di fuoco che scala le cime degli alberi per andare a cuocere le stelle.

Mastru Sieppi si abbandona a una risata cavernosa e annuisce piano con la testa.

– Ma dimmi nonno, perché tutti ti chiamano Mastru?

– Come perché? Ricuccio bello, non ti fari sintìri ca è scornu! Tutta la Calabria e pure la Sicilia ho girato come maestro d’ascia. Il nonno tuo è artista d’opera fina. Chiedi a chi vuoi, a tutti io li ho imparati a squadrare legname. Quando ero giovane non c’erano le macchine come adesso, ai tempi miei si sudava davvero. Salivamo in cima prima ancora che ‘nghiornasse e tornavamo alle baracche la sera. Dopo che il tronco era caduto a terra ci montavamo sopra e cominciavamo a lavorarlo: prima si tagliavano i rami, poi si piantavano chiodi e filo per seguire una traccia diritta e si partiva a scortecciare. Ore e ore di lavoro, che non sapevi più dove finiva il braccio e dove cominciava l’ascia. Hai mai sentito dire ca cu’ néscia tundu non po’ muriri quatratu? Non è vero niente Ricuccio, senti a me, non ci credere! Ognuno vive e muore come gli pare su questa terra, come il tronco di faggio. Nasceva tondo, ma voleva morire quadrato, e io ce lo facevo diventare con queste mani.

– E poi che fine facevano le travi?

– Quando erano pronte se ne partivano col treno. Si fissavano sul rimorchio e via! Solo che poi il treno prendeva velocità e povero cu’ ‘nci ‘ncappava sutta! Ne sono capitati di incidenti su queste montagne, ne ho visti di amici schiacciati, mutilati…

Sieppi “maestro d’ascia” raccontava la sua Sila, che d’inverno faceva paura e si lasciava lavorare solo da maggio a ottobre, poi la montagna si chiudeva in se stessa, in una morsa di gelo che non dava scampo a nessun essere vivente.

– Quando tornavo a casa ripensavo a quei tronchi che avevo inciso a colpi di fatica. Che diventavano? Dove andava a finire quel legno che mi aveva fatto combattere e bestemmiare? Non lo sapevo, ma mi ero persuaso ca quandu divintàva n’atra cosa, chidhu lignu ciangìa la Sila sua, aveva nostalgia del vento e degli uccelli dell’altopiano.

Uno scoppio improvviso mi fece saltare sul sedile, seguito subito da un altro e un altro ancora.

– Tranquillo Enrico, devono essere i petardi di cui parlava il capotreno.

Mia moglie era di nuovo seduta di fronte a me con le gambe accavallate, gli occhiali da sole e l’aria impassibile di sempre. Della bambina non c’era più traccia.

– A quali petardi ti riferisci?

– Certo che stamattina sei proprio distratto. Il capotreno raccontava che una volta, quando non c’erano i telefoni, il macchinista veniva avvisato delle anomalie lungo il percorso con una bandiera rossa o lo scoppio dei petardi se si viaggiava di notte. Adesso li usano per fare scena, come benvenuto all’arrivo.

Infatti eravamo giunti al capolinea. La stazione di San Nicola Silvana Mansio ci accolse in pompa magna, con le bandierine colorate e l’Inno di Mameli. Mentre tutti si accalcavano a scendere, io non riuscivo più a scollarmi dalla panca di legno sulla quale avevo compiuto il mio personale viaggio nella memoria familiare e in quella collettiva dei luoghi. Mi dispiaceva abbandonare la carrozza di quel treno che, per un tempo indefinito e fumoso come l’aria che ci avvolgeva, mi aveva restituito uno scampolo di infanzia. Salutai un’ultima volta con lo sguardo la vecchia FCL – 353, mio nonno Sieppi e tutte le ombre lontane che su quel treno a vapore avevano ripreso vita. Tornando alla macchina un cagnolino senza collare, col pelo ambrato e i guanti bianchi, prese a seguirci scodinzolando.

– Non dargli retta, sennò ce lo portiamo dietro fino al ristorante.

– Perché, lo vedi anche tu?

– Certo che oggi sei proprio strano!

Strizzai l’occhio a Rigoletto, altra vecchia conoscenza. Stava a guardia della segheria in cui aveva lavorato per anni mio padre. Non che il proprietario fosse appassionato d’opera lirica, figuriamoci, ma i nomi dei protagonisti lo facevano morir dal ridere e aveva deciso di affibbiarli ai suoi cani. Rigoletto mi annusò una scarpa e agitò la coda in segno di saluto, prima di sparire dietro la locomotiva, nello spazio misterioso che racchiude tutto e non dimentica nessuno.

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