Sciascia in Calabria: l’amicizia con La Cava e la visita alla Certosa

“Il vivere in una grande città si oppone ad una approfondita osservazione della vita”, sostiene Mario La Cava, scrittore di Bovalino (RC), in una delle sue lettere a Leonardo Sciascia, scrittore di Racalmuto (AG), che gli fa eco: “in fondo vivere così mi piace: leggere un libro al giorno e scrivere un articolo al mese; e quando posso una piccola scappata oltre lo Stretto”. Corrispondevano tra loro i due scrittori, pensatori, espressione di quell’impareggiabile “Secondo Rinascimento” che fu il Dopoguerra. Un’epoca di penne e menti sopraffine, rispetto alle quali si rivela la pochezza odierna, come ci costringe ad ammettere una tripletta di centenari illustri: Sciascia (1921), Pasolini (1922), Calvino (1923). Autori dai destini incrociati che condividono, tra le altre cose, un rapporto viscerale con la Calabria. Terra scelta, subita, abitata o visitata, che in virtù della sua anima primordiale non può che lasciare il segno negli animi votati alla letteratura.

Una Calabria che, assieme alla provincia agrigentina, fa da sfondo all’intimo carteggio intercorso tra Sciascia e La Cava in un arco di tempo che va dal 1951 al 1988, la cui pubblicazione si deve agli studiosi Milly Curcio e Luigi Tassoni, che nel 2012 curano per Rubbettino il volume Lettere dal centro del mondo. Un paradosso che attraversa Bovalino e Racalmuto, estreme periferie geografiche di un’Italia in bianco e nero, assurte a gangli nevralgici nella misura in cui, per entrambi gli autori, il centro del mondo non è altro che uno spazio interiore, che tuttavia non rinuncia a plasmare l’attualità più stringente. Sarà Mario La Cava, nei suoi soggiorni romani, a introdurre Sciascia a figure quali Alberto Moravia, Corrado Alvaro, Elio Vittorini, Italo Calvino e Roberto Roversi, di cui diverrà amico fraterno.

Fughe verso salotti letterari e mondani apparentemente molto distanti dai luoghi di origine, verso i quali si nutre quell’amore/odio che innesca eternamente andate e ritorni e fa condividere a Sciascia un pensiero amaro con l’amico calabrese, “Questa vita nei nostri paesi è terribile”, salvo non abbandonare mai la macchina da scrivere nella casa di campagna della Noce. Uomini e scrittori che seppero consegnare al proprio tempo visioni tutt’altro che provinciali e un senso di “periferia cosmopolita” che ancora oggi ci offre la misura della loro autorevolezza intellettuale e artistica.

Personaggi che, per primi, hanno saputo esercitare l’arma dello scetticismo contro i germi del conformismo e della modernità senza progresso, combinando magistralmente il piano della finzione con quello della realtà, le dinamiche localistiche coi fenomeni socio-antropologici universali. Un esempio singolare di questo interscambio si verificò nella primavera del 1956, quando, a Reggio Calabria, in un intervento pubblico, il consigliere comunale Gaetano Cingari prese a prestito un brano de Le parrocchie di Regalpetra, di Sciascia (1956), e sostituì i nomi dei personaggi con quelli di alcuni consiglieri al fine di rappresentare la verità col verosimile.

“Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia […]. E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su, su per l’Italia, ed è già oltre Roma”.

(Il giorno della civetta, 1961)

Del resto, è proprio questa l’operazione prediletta di Sciascia, il gioco perverso dell’inventore del genere poliziesco ante litteram, cui Camilleri deve tutto: far scivolare costantemente il reale nel verosimile e viceversa. Regola cui non sfugge, ad esempio, la ricostruzione del mistero legato alla scomparsa del fisico Ettore Majorana (1938), confluita nel giallo filosofico La scomparsa di Majorana (1975), nella quale il protagonista viene inequivocabilmente associato alla Certosa di Serra San Bruno (VV). Ancora una volta ritroviamo il legame predestinato tra lo scrittore siciliano e la Calabria. Non mi soffermerò sulla drammatica attualità della vicenda di Majorana, più che mai risaputa, né sulle innumerevoli versioni, citazioni, conferme e smentite che, negli anni, si sono ispirate al racconto sciasciano nel tracciare narrazioni parallele o iperboliche. Quel che è certo, ampiamente noto, è che Sciascia si recò in visita alla certosa serrese negli anni ‘70. Lo ritrae una fotografia dell’epoca, in compagnia dell’enigmatico frate straniero citato tra le pagine del libro:

“Ecco: abbiamo fatto questo viaggio, siamo entrati in questa cittadella dei certosini, per seguire una sottile, inquietante traccia di Ettore Majorana. Una sera, a Palermo, parlavamo della sua misteriosa scomparsa con Vittorio Nisticò, direttore del giornale L’Ora. Improvvisamente, Nisticò ebbe un preciso ricordo: giovanissimo, negli anni della guerra o dell’immediato dopoguerra, insomma intorno al 1945, aveva visitato, in compagnia di un amico, un convento certosino; e ad un certo punto della visita, da un ‘fratello’ […] avevano avuto la confidenza che nel convento, tra i ‘padri’, si trovava un grande scienziato”.

“Ma ora, dietro al certosino che ci guida per corridoi, scale e celle, non abbiamo voglia di far domande, di verificare. Ci sentiamo coinvolti, tenuti all’osservanza di un segreto. […] E siamo al cimitero: trenta tumuli di terra rossastra, foggiati come coperchi di sarcofagi, una croce di legno nero su ogni tumulo. […] Una inviolabile pace è tra quelle croci nere. Ci sentiamo in pace anche noi. Sulla soglia, salutandoci, il certosino domanda: Ho dato risposta a tutti i vostri quesiti?”.

Di sicuro, Sciascia risponde tuttora a molti dei nostri, suggerendone di nuovi, sia che lo si legga per la prima volta o lo si rilegga con rinnovato piacere, poiché da osservatore sottile, critico, ci restituisce un punto di vista consapevole sui nostri luoghi e su noi stessi.

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