Pietro Citati e l’arte di riscrivere la letteratura

“Il compito del romanziere è proprio quello di ricordarci quale martellante fragore di tuoni, quale splendore di fulmini possono colpire all’improvviso la nostra esistenza” scrive il maestro Pietro Citati a commento di un pensiero altrettanto luminoso, a firma Anton Čechov, secondo il quale lo scrittore può “stare seduto con la penna in mano per giornate intere, non accorgersi del tempo che passa e sentire, insieme, qualcosa di simile alla vita”. Poiché la letteratura è simile alla vita e viceversa.

È una vita multipla, sovrapposta, parallela, abissale o eterea. Un’espansione di vita. Un’addizione che ci conduce dritti alla soglia dell’eterno e ci molla là, in bilico. Questo ci hanno insegnato i grandi scrittori, poeti e drammaturghi; i grandi critici e saggisti capaci, ciascuno col proprio stile, di mettervi mano e plasmarla in forme nuove. Fare della vita letteratura e poi, ancora, riscrivere la letteratura stessa. In questo Pietro Citati è maestro tra i più eccelsi. Figura la cui perdita fa sentire ciascun lettore, che per suo tramite si avventurava spavaldo tra i perigli letterari, un po’ più solo e smarrito. In balia di se stesso o, peggio ancora, degli umori labili dei narratori. 

“Nei miei libri c’è sempre una fusione fra vita e interpretazione dell’opera. Racconto la vita, ma non tutta la vita: la seguo fino al momento in cui una persona ordinaria cambia e diventa scrittore, il momento in cui scatta qualcosa. Cerco di capire il segreto di questa metamorfosi di un uomo qualunque – fino ad allora un mondano, un ufficiale o un impiegato – che a un certo punto si trasforma in uno scrittore. A partire da quel momento, il mio libro diventa un’interpretazione dei libri che ha scritto”.       

Per il tocco miracoloso della sua penna, Citati tiene assieme, allaccia e scioglie le trame della mitologia e della letteratura mondiale. Unisce Alto e Basso, Oriente e Occidente, Luce e Oscurità. Nella sua penetrante capacità di rivisitare, comparare e intrecciare i capolavori della letteratura universale, il professore – formatosi, tra i grandi, alla Scuola Normale di Pisa negli anni ’40 – riesce nell’impresa di restituire uno sguardo onnisciente sugli archetipi e i tòpoi di tutti i tempi, consegnandoli al lettore come tonalità di un unico grande coro rivolto a lui solo. La voce della letteratura come voce dell’uomo che parla a se stesso.

“Mi hanno influenzato moltissimo Goethe, Kafka, Gadda, Pessoa, Musil e Borges. Questi ultimi erano tre forme diverse di ironia: letteraria e metafisica, Borges; vertiginosa e multiforme, Pessoa; infinitamente complessa, Musil”.

Così Citati, nel rivendicare un metodo ben lontano da quello dell’esegesi tradizionale e dalle pomposità della critica in sé. Piuttosto, un istinto da scrittore di razza, quale a sua volta è stato nella piacevolezza della prosa indagatrice. 

A ispirarlo, la ricerca di principi supremi, universi complementari, linguaggi che dipanano con potenza l’oscura trama dei pensieri e dei sentimenti umani, a ogni latitudine e in ogni tempo. Testi che deflagrano in una miriade di scintille, balugini e saette che lui stesso è chiamato a ricomporre nei suoi saggi raffinati, La luce della notte (1996), Israele e l’islam (2003), Il silenzio e l’abisso (2018). Per non parlare delle lezioni sopraffine cui attingere a piene mani, da La civiltà letteraria europea. Da Omero a Nabokov (2005), summa imprescindibile per chi vuole giocare in casa, a La morte della farfalla. Zelda e Francis Scott Fitzgerald (2006), volendo allungare lo sguardo oltreoceano. L’elastico invisibile che slancia la penna del Citati-saggista oltre le traiettorie geografiche del conosciuto è lo stesso che consente a Citati-scrittore di ritrarsi, ripiegando nel ventre intimo della propria storia familiare, quella Storia prima felice, poi dolentissima e funesta (1989) che passa per la ricostruzione dell’epistolario amoroso fra i suoi bisnonni, Clementina e Gaetano Citati.

Cos’altro chiedere a uno studioso capace di simili variazioni prospettiche? Gli si può chiedere di cimentarsi col biografismo – male assoluto dei nostri tempi – senza scadere nella banalità del biografismo? Risponderebbe che La colomba pugnalata (1995) “sebbene contenga delle pagine sulla vita di Proust, non intende essere, e non è, una biografia”. Del resto, come potremmo etichettare in siffatta maniera un’opera che sancisce la mutazione genetica della natura biografica. Meglio ancora, una mutazione “generica”, nel senso stretto del genere letterario, che da biografia romanzata o romanzo biografico intraprende all’improvviso una terza via: quella in cui l’autore in oggetto diventa soggetto, protagonista dell’opera che a un certo punto è la sua stessa vita. Narrare il narrante. Scrivere lo scrivente. Questo il potere perverso che Pietro Citati ha esercitato sulle più grandi pagine della letteratura mondiale; sugli autori che le hanno composte e sui noialtri, lettori-spettatori estasiati da tali equilibrismi.

Pietro Citati ha eternato se tesso attraverso le storie dei personaggi e degli autori, facendosene carico a fior di pelle. Allungando una carezza a Oliver Twist, vegliando al capezzale del morente Ivan Il’ic, valicando i mondi possibili al fianco di Pessoa. Una vita di carne fatta di vite di carta.      

Persino Dostoevskij, il trito e ritrito Dostoevskij, che Citati evoca per un’intera carriera tra saggi, articoli e dissertazioni senza tuttavia dedicargli una monografia, trova nella sua interpretazione un’inedita chiave di lettura. Tra le pagine dell’inesistente “Libro russo”, opera mai scritta ma che si potrebbe dare facilmente alle stampe mettendo assieme gli scorci che il maestro ha disseminato tra le pagine della sua corposa produzione bibliografia, si annidano “l’umor nero e la sconfinata pietà” del nevrastenico Dostoevskij, “l’ignoto paese della morte” di Tolstoj, “la fede e l’eroismo” di Lekov, la “voce dolce e profonda” di Čechov e quella che “sale dall’alto” di Cvetaeva. Infine lui, eletto tra gli eletti, Nabokov. Il padre di quella Lolita che Citati svelò all’Italia nel 1959.     

“Dopo trentasei anni, rileggo Lolita di Vladimir Nabokov. Trentasei anni sono moltissimi per un libro. Ma Lolita ha, come allora, un’abbagliante grandezza. Che respiro. Che forza romanzesca. Che potere verbale. Che scintillante alterigia. Che gioco sovrano. Come accade sempre ai grandi libri, Lolita si è spostato nel mio ricordo. Non mi ero accorto che possedesse una così straordinaria suggestione mitica”.

Citati percorre con noi i Vangeli e la parola di Cristo, quella di Maometto, dei profeti e degli arcangeli. Teorie di tigri, grifoni e pesci, tauromachie. La tenebrosa lucentezza del dio Apollo. Le visioni iniziatiche nell’Asino d’oro di Apuleio. La fede suprema dei santi. Il commento all’universo di Montaigne e la cupa malinconia delle commedie di Molière. Le voci magiche e il sacro orrore delle foreste americane. La pulsione visionaria di Balzac. La felicità adombrata di Brontë e la depressione che irruppe in Tolstoj. La prossimità di Conrad al limite estremo. L’ego immenso e vertiginoso di Woolf. La disperata curiosità di Calvino. La fascia di tenebra di Gadda.

Su ciascuno, il maestro posa il suo sguardo essenziale. L’unico in grado di restituire l’illusione di una verità nascosta oltre il reale.

“Un grande libro è composto di tanti strati: si tratta di scoprire quello più nascosto”, amava dire.

Riteneva che i classici avessero la capacità di muoversi nel tempo, trasmettendo emozioni e messaggi nuovi a ogni nuova generazione, rendendo fatto compiuto la ricerca di universalità e immortalità che l’uomo indirizza spesso nel posto sbagliato.

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