Persepolis, disegnare l’emancipazione

Da un po’ di tempo la data del primo febbraio coincide con la “Giornata Mondiale del Velo Islamico”. L’usanza di velarsi il capo, prettamente mediterranea e degli immediati dintorni (Vicino e Medio Oriente), è pratica attorno alla quale si consumano stereotipi, guerre ideologiche e culturali, ma anche nuove forme creative e narrazioni alternative, come quella che ha consacrato tra i grandi classici del fumetto l’inconfondibile tratto della disegnatrice iraniana Marjane Satrapi, protagonista “sui generis” di questa pagina letteraria. Sì, perché lo stile, i temi e la satira, sospesa tra denuncia e poesia, fanno di Persepolis una vera e propria opera letteraria.

Chi ama la letteratura sarà subito conquistato dal mondo in bianco e nero della sua magica china, che con eccezionale potenza narrativa descrive la piccola Marjane dai 6 ai 14 anni, mentre attorno a lei l’Iran subisce il capovolgimento di potere che sostituirà il regno dello scià, Reza Pahlavi, con la Repubblica Islamica degli ayatollah. Una rivoluzione vista per la prima volta attraverso gli occhi di una bambina.

Un mondo sconosciuto e a tratti spaventoso, quello dell’Islam radicale, che irrompe nella normalità di una famiglia istruita, di larghe vedute, a sconvolgerne gli equilibri e imporne di nuovi.

“Questo paese conosce da sempre le guerre e i martiri. Perciò, come diceva mio padre: quando arriva un’onda troppo grossa, abbassa la testa e lasciala passare!”.

Non fosse che la sua, di testa, è improvvisamente avvolta in un velo che mai le era stato imposto di indossare. È qui che intervengono le argute sequenze nelle quali la piccola Marjane appare seduta accanto alle compagne di scuola, indistinguibili l’una dall’altra, come chiunque indossi una divisa omologante (incluse quelle di casa nostra).

A questo punto, l’opera mi offre l’assist prezioso per indossare i panni dell’orientalista e “disvelare il velo”, ovvero i modi nei quali le donne musulmane scelgono liberamente di indossarlo, rivendicandone con fierezza una valenza tradizionale o, viceversa, lo subiscono quale atto tangibile di una violenza perpetrata anche in modi più sottili.

Marjane Satrapi e la sua graphic novel ci aiutano a ponderare “il peso del velo” su una bilancia molto sensibile, dove le stesse donne musulmane lo depongono come fardello o lo sottraggono come conquista, a seconda della loro provenienza. Perché, come spesso mi piace sottolineare, non ha alcun senso riferirsi genericamente alla “condizione della donna nell’Islam”. Sarebbe come riferirsi a quella “della donna nel Cristianesimo” senza specificare se il soggetto sia la presidente della Banca Centrale Europea o mia nonna, in Calabria. Allo stesso modo, il peso del burqa afghano non sarà mai lo stesso di un hijab indossato con vezzosa consapevolezza da una manager, in una grande città.

 

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