Non chiamateci scrittrici

C’è stato un tempo non troppo lontano in cui agli scrittori e agli intellettuali, inclusi quelli di sesso femminile, era richiesto di essere semplicemente tali. Parlo di penne e menti del calibro di Morante, Ginzburg, Rosselli, Yourcenar, giusto per fare qualche nome. Le opere di queste personalità venivano sottoposte a critica e segnalazione ai premi più prestigiosi da personaggi di altrettanta autorevolezza. Poi, il mondo della cultura – la nicchia dorata che produceva pensiero creativo, politico, filosofico – è stato brutalmente parificato, omologato, globalizzato e, infine, “socializzato” al punto da non richiedere più letteratura e pensiero critico ma… immagine. Immagine scritta, parlata, brandizzata. Parole da slogan, da selfie, fotografiche. Post.

In questo gioco al ribasso che è proprio della mia generazione e, più ancora, di quelle successive, lo scrittore di sesso femminile, ovvero la “scrittrice”, appagato da un riconoscimento mediatico fatto passare per conquista ed emancipazione, ne esce ancora più annichilito. Le si richiede, infatti, d’essere oggetto implicito di tale marketing. Attenzione, non sto dicendo che tutte si pieghino al gioco o che non vi siano eccezioni meritevoli di sfuggire alla regola: lo spessore di pochi nomi in Italia (qualcuno in più all’estero) è sufficiente a dimostrarlo, ma è indubbio che il sistema, in qualche misura, lo richieda.

Le scrittrici, oggi, sono bellissime. Vivadio! Smaglianti di lacche, turgide, ipercurate, abbondanti nelle forme e nelle chiome, secondo un cliché applicabile a tante altre categorie della vita pubblica e privata che di per sé vuole essere innocuo. A quelle che non lo sono per natura né ritocco, il mondo social, nella sua magnanimità, concede una seconda arma: l’ironia. Anzi, l’autoironia, ovvero la capacità di sdrammatizzare, ridersi addosso, farsi beffe della propria bruttezza e inadeguatezza al mezzo con un linguaggio (sempre per immagini e “keywords”) sbarazzino e friccicarello.

Le opere di costoro vengono sottoposte a “critica” e segnalazione ai premi, di conseguenza sempre meno credibili, non già dai suddetti autorevoli, ma da altrettante figure plasmate a immagine e somiglianza dell’album mediatico che le ha generate (nuove “professioni-tag” che assicurano la pagnotta) sulla scorta di una millantata “sorrellanza”, condivisa beltà o macchiettistica simpatia.

Ecco, questo gioco è uno specchio delle brame. Un riflesso stregato. Una mera superficie, appunto, sulla quale viene a galla principalmente narrativa spicciola, come qualcuno può legittimamente intendere anche la mia e quella di tanti altri/e.

È avvilente pensare che una simile amplificazione di vuoto, una democrazia della parola svilita a immagine, una pornografia da “sotto la copertina niente”, che utilizza il libro come un qualunque prodotto del mercato e lo pubblicizza anche attraverso il corpo delle donne, si possa considerare sia pur lontanamente una conquista.

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