“[…] il 13 di agosto alle tre meno un quarto del pomeriggio, scoprii di essermi innamorato. […] se ciò fosse accaduto il 12 o il 14 forse sarebbe andata diversamente.”
Questo dubbio attanaglia il giovane protagonista nell’incipit di Mio zio Napoleone, grande classico della letteratura iraniana (prima pubblicazione nel 1973), a firma Iraj Pezeshkzad, edito per la prima volta in Italia da Francesco Brioschi lo scorso novembre, con traduzione di Anna Vanzan.
La stimata Vanzan, iranista e islamologa di primo piano, appassionata traduttrice di opere in lingua fārsī (La civetta ceca, di Sadeq Hedayat; Suvashun. Una storia persiana, di Simin Daneshvar, solo per citare due capisaldi della letteratura iraniana contemporanea) ci ha lasciato sul finire di questo annus horribilis, il 23 dicembre. Se ciò fosse accaduto il 22 o il 24, parafrasando il testo, Anna Vanzan avrebbe comunque compiuto il suo viaggio in un periodo dell’anno sacro agli iraniani, quando si celebrano il solstizio d’inverno e la rinascita della terra. Ecco perché ci piace pensare che anche lei sia rinata nella luce, tra le candele che hanno scaldato la lunga notte di Shab-e-Yalda.
Tornando al tredicenne innamorato, lo scopriamo nipote di un ex militare che, millantando d’aver sbaragliato l’esercito inglese, pretende di accostare la propria figura arcigna a quella di Napoleone Bonaparte, tanto da guadagnarsi, presso i nipoti che lo scherniscono, l’epiteto di “Caro Zio Napoleone”. Sarà lui, come ogni patriarca che si rispetti nella Teheran del 1941, a dettare le sorti dei familiari, in particolare dei più giovani, frapponendosi all’amore appena accennato tra il protagonista e la cugina Leyli.
Nulla di nuovo sotto il sole d’Oriente – e d’Occidente, aggiungiamo noi – se non l’ennesima saga tragica di coppie osteggiate, lacerate da rancori familiari, interessi politici, economici, gelosie e invidie, le stesse che consumarono Layla e Majnun o Romeo e Giulietta, sia pur a latitudini diverse. Storie d’amore e letteratura che prestano il fianco agli intrighi della Storia con la “S” maiuscola, le cui piccole vicende si stagliano sullo sfondo dei grandi accadimenti, lasciandosi plasmare dal corso del tempo.
L’amore contrastato quale pretesto per tinteggiare un grande affresco storico e familiare che non rinuncia all’ironia e all’arma della satira politica, delineando, in pieno stile Pezeshkzad, una carrellata di personaggi indimenticabili, che al netto di qualche stereotipo si fanno portavoce di un’aspra critica nei confronti della loro stessa società. Una narrazione intessuta di dialoghi brillanti, talvolta esilaranti, equivoci, per un romanzo che ricorre a un abile gioco di piani sfalsati tra realtà e finzione.
Un mondo nel mondo quello che va in scena “alla corte” dello zio Napoleone, mentre tra le strade di Teheran si consumano gli ultimi giorni di un’estate alle soglie dell’invasione britannica. Così i vizi e le virtù dei singoli si fanno specchio del Paese intero, nell’avvicendarsi di classi politiche sciagurate e di un sentimento di diffidenza verso l’Occidente che dopo la Rivoluzione Islamica del 1979 condurrà alla censura del libro stesso, tanto che l’espressione “zio Napoleone” passerà a indicare per antonomasia ogni atteggiamento anti-occidentale.
“[…] mio padre nelle riunioni di famiglia, a volte in presenza del Caro Zio, sosteneva che Napoleone fosse stato un avventuriero che aveva trascinato la Francia nella disgrazia e nella miseria”.
Ne parlo anche su Glicine Associazione e Rivista.