Memoria per tutti

Nel giorno del suo onomastico, la piccola Antonia va “a trovare” il Santo nella basilica, insieme al nonno Yervant, che ci tiene tanto, e alla zia Henriette – «creatura della diaspora, senza più una lingua madre» –. A partire da quel ricordo d’infanzia, Antonia Arslan riavvolge il filo di una dolorosa memoria familiare, che è anche memoria intima dell’intero popolo armeno, il cui genocidio ad opera dei Giovani Turchi – al pari di decine di altre stragi silenziose, del passato e del presente – non trova spazi d’omaggio tra le ricorrenze storiche del calendario collettivo.

La Masseria delle Allodole, così gli Arslan chiamavano la bella tenuta sulle colline dell’Anatolia dove, tra preparativi festosi, si apprestavano a trascorrere la Pasqua del 1915 e accogliere Yervant in arrivo da Venezia, dove viveva ormai da molti anni. Nessuno poteva presagire la carneficina che, in quel maggio inebriante di rose e gelsomini rampicanti, avrebbe imbrattato di sangue ogni centimetro di quel luogo ameno:

 

“Si aprono i cesti, si dispone la grande tavola sul prato. Il pomeriggio è accecante di colori e di profumi. In cucina Shushanig sovrintende al lieto sfaccendare delle donne, ordina, risponde, consola”. Pochi istanti dopo, tutti gli uomini della famiglia, uno dopo l’altro, annegheranno in un bagno di sangue (tranne il piccolo Nubar, scambiato per una bambina): “Lame balenarono, urla si alzarono, sangue scoppiò dappertutto, un fiore rosso sulla gonna di Shushanig: è la testa del marito, decapitata, che le viene lanciata in grembo”.

 

Questa scena atroce e indelebile prende vita e si amplifica nell’intensa e coinvolgente trasposizione cinematografica dei fratelli Taviani. Il film si fa specchio fedele dell’eroica e straziante deportazione delle donne attraverso il deserto siriano (brave e credibili Paz Vega, nel ruolo di Nunik e Angela Molina, in quello di Ismene), per essere massacrate ad Aleppo.

 

“Dopo tanti anni, è nel doloroso interno (della basilica) brulicante di gente che mi sento a casa, nel caldo nido di una volta: non estranea, non ospite, ma passeggera in attesa di un treno di cui non conosco l’orario. So soltanto che da qui passerà […]. Qui vorrei finire il mio tempo, appoggiata a un gradino consumato dai passi degli uomini, perché Qualcuno mi accetti, per non svanire nel nulla, e transitare verso la luce, con la mano nella mano del mio amico Antonio il portoghese, detto Antonio di Padova, il Santo col fiore di giglio in mano”.

 

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