È singolare come, talvolta, i segni che anticipano il disfacimento – la crepa nell’intonaco ritinteggiato, la ruga sul viso incipriato di una bella donna, la prima foglia che cede alle lusinghe di settembre, gli scricchiolii e i sogni molesti – siano anticipati dall’acme di una bellezza senza timore d’oblio.
La premonizione ci viene incontro passeggiando nell’odoroso giardino del principe Salina, che ci onora della sua ospitalità, badando bene a stare un passo indietro rispetto alla sua imponente persona e agli interlocutori che lo affiancano, ora il timorato padre Pirrone, ora il nipote prediletto, Tancredi, croce e delizia della casa.
Costui incede sprezzante verso il fatale ribaltamento che da qui a poco consegnerà il Meridione d’Italia a una nuova corona. Già ce lo figuriamo con indosso la giubba vermiglia dei voltagabbana, mentre sale agli onori di un’annessione che si ammanta di novità. Ne abbiamo conferma carpendo un motto sussurrato all’orecchio dello zio, che racchiude il senso intero di un passaggio storico e segnerà la storia patria per i secoli a venire, oltre all’epilogo di questo romanzo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
La maestosa figura del principe Fabrizio è scossa da un fremito, noi pure tratteniamo il respiro e il fedele alano Bendicò, vero protagonista de Il Gattopardo – come ebbe a dire l’autore stesso, Tomasi di Lampedusa, in una nota all’amaro testamento lasciato ai posteri, senza vedere il capolavoro dato alle stampe – piroetta nervoso attorno alla propria coda, come a dare plasticità al circolo vizioso nel quale sta per volgere l’estate del 1860.
Ecco i segni premonitori, mentre tutto attorno è un deflagrare di profumi oleosi e conturbanti, con le
“rose Paul Neyron, eccitate prima e rinfrollite dopo dai succhi vigorosi e indolenti della terra siciliana, arse dai lugli apocalittici […]. Il Principe se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare la coscia di una ballerina dell’Opera”.
Tentiamo senza successo di riportarlo alla realtà, assieme al padre gesuita e al fedelissimo don ‘Nofrio, una volta raggiunta la tenuta di Donnafugata per evitare le “schioppettate” di una Palermo già prostrata al piemontese. Per un attimo guadagniamo la sua attenzione. Sembra fiutare l’apocalisse mentre don Calogero Sedàra, il rozzo amministrare dei suoi beni di provincia, avanza imborghesito tra i mezzadri. Invece no! Al principe Salina sfugge di bocca un invito a far festa, che mai avrebbe pronunciato nel tempo della sua ferma podestà, e che in quest’ora nefasta assume i contorni della resa incondizionata.
Un’altra crepa, un’altra ruga, l’ennesima foglia rinsecchita sul ramo di una pianta che un tempo era stata florida.
Infine, alla festa debutta lei. Eva, Elena o Angelica come preferisce chiamarla il nostro autore, servendosi dell’ironia che contraddistingue l’intera opera. Il desiderio incontra l’utilità, annebbia e risolve al tempo stesso, suggella un patto di sangue al quale non si può più venire meno… “Se vogliamo che tutto rimanga come è”.
E festa sia! Tutto è compiuto. In casa Salina fervono i preparativi per suggellare l’unione che precede l’Unità. Dismesse le trine borboniche e pure, volentieri, le polverose casacche rosse, sulle quali era rappreso il sangue di sparuti fedeli e qualche eroe, vestiamo panni più alla moda. Persino Bendicò appare a suo agio tra i giri di valzer della novella mondanità: “l’uomo nuovo come dev’essere; e peccato però che debba essere così”, bisbiglia dal suo cantuccio il buon Ciccio Tumeo, compagno di mille battute di caccia.
L’ultima parola la lasciamo al principe decaduto, Fabrizio Salina, mai così consapevole, che per mano della penna barocca, arabo-normanna e succulenta del tanto bistrattato Tomasi, tratteggia un profilo della Sicilia – oserei dire del “Mediterraneo e dintorni” – alla cui verità ancora oggi non si fugge:
“Noi siciliani siamo stati avvezzi da una lunghissima egemonia di governanti che non erano della nostra religione, che non parlavano la nostra lingua. Se non si faceva così non si sfuggiva agli esattori bizantini, agli emiri berberi, ai viceré spagnoli. […] Sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori, nessuna germogliata da noi stessi […]. La nostra sensualità è desiderio di oblio; desiderio di immobilità voluttuosa e di morte, la nostra pigrizia, i nostri sorbetti di scorsonera e cannella […]; questo paesaggio che ignora le vie di mezzo fra la mollezza lasciva e l’asprezza dannata; questa nostra estate lunga e tetra quanto l’inverno russo. Adesso la piega è presa, siamo fatti così”.