L’ultima madre

Ripensando alla Sardegna – quella più intima, ruvida ma ospitale, che ho incontrato scavando da “cercatrice di passati” nella verde Barbagia dei pastori pre-nuragici – ho finalmente trovato il momento giusto per gustarmi l’ammaliante storia dell’Accabadora di Michela Murgia (Campiello 2010).

“Colei che finisce” si aggira per il paesino di Soreni reggendo su di sé il peso di sguardi e pensieri taciuti, che non cercano parole per esprimere il mistero di un’invocazione o di una gratitudine indicibile. Ma il cuore della piccola Maria è ancora troppo giovane per comprendere il segreto che ammanta i passi notturni e solitari della sua madre adottiva, mentre s’avvia nel buio delle case altrui per porre fine al dolore che non trova fine; troppo corto è il filo tessuto da Cloto, la Parca della vita, per insinuarle il sospetto che all’altro capo attendono le forbici inesorabili di Atropo, collega ante litteram di Tzia Bonaria Urrai. Solo al momento opportuno Maria saprà distinguere con solare certezza la via del giusto perché:

 

“Come gli occhi della civetta, ci sono pensieri che non sopportano la luce piena. Non possono nascere che di notte, dove la loro funzione è la stessa della luna, necessaria a smuovere maree di senso in qualche invisibile altrove dell’anima”.

 

Sotto il suo magico prisma da jana, proprio come una delle tre Fatae del destino, Michela Murgia scompone la realtà pragmatica del quotidiano – e di una delle culture più antiche del Mediterraneo – in scaglie di poesia pura, usando la penna come uno scettro attraverso il quale esercitare un potere caleidoscopico su ogni singola parola: così, la piccola Maria nella bottega di paese appare all’accabadora

 

“…immobile con l’incoscienza indolore di chi non è mai nato veramente, mentre sulla stoffa bianca del vestito cominciava a fiorire il colore delle ciliegie rubate… un osceno menarca di frutta”; e il paese come uno dei “…posti dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili, e in quella misteriosa geografia del consenso, Soreni era una piccola capitale morale”.

 

Col tocco misurato della sua scrittura, a sprazzi piacevolmente “sarda” nella sintassi del periodo, l’autrice ci accompagna a riflettere sulla dimensione proibita della morte, sul sottile confine che separa la vita da ciò che ci si ostina a chiamare vita, pur essendo un grumo di dolore senza dignità.

 

Accabadora, M. Murgia.
Accabadora, M. Murgia.

 

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