L’Iran di Kader Abdolah: la libertà della scrittura a 40 anni dalla rivoluzione

A 40 anni esatti dalla rivoluzione che portò gli āyatollāh al potere, il primo febbraio del 1979, la Repubblica Islamica dell’Iran è oggi nel mirino degli Stati Uniti d’America, che dopo aver contribuito a destabilizzare la Siria puntano a fare altrettanto nel cuore dello Stato persiano, con provocazioni e sanzioni pesanti, la cui ricaduta si insinua fin dentro le tasche di noi italiani, alleati obbedienti e ignoranti, in fila al distributore di benzina.  

Ma cosa sappiamo davvero dell’Iran, l’antica Persia achemenide, patria di Ciro il Grande, Dario e Serse? Cosa sappiamo dell’immensa fioritura letteraria di questo Paese, che ha eletto la poesia a simbolo identitario e patrimonio universale, sulle ali mistiche dello Stilnovo d’Oriente fondato dal grande poeta Hafez?

Per accostarsi all’intenso racconto dell’Iran – alla sua storia ancestrale, che è storia dell’umanità, alle sue bellezze incastonate tra rocce e polvere, alle contraddizioni di sangue – nessuna voce è più credibile, obiettiva e coinvolgente di quella dello scrittore Kader Abdolah, esiliato in Olanda negli anni ’80 e già protagonista del Salone Internazionale del Libro di Torino con diversi capolavori.

Il suo sguardo di verità attraversa le incongruenze che si annidano tra le pieghe della tradizione, del modernismo e del radicalismo, setacciando tra le maglie del narrare ogni passaggio di cronaca per lasciare al lettore solo l’essenza, la poesia delle identità travolte dal corso della Storia. 

Prima l’Iran dello scià…

 

Lo scià Reza Khan voleva di più, voleva addirittura cambiare di colpo la vita delle donne. Da un giorno all’altro dovettero togliersi il chador, indossare il cappotto, mettere il cappello e andare così vestite al bazar. E Reza Khan voleva che tutte quelle cose accadessero in fretta. Per questo regnava con pugno di ferro e non tollerava nessuna voce contraria. Ordinò di cucire le labbra al poeta Farogi.     

 

…poi l’Iran della rivoluzione islamica…

 

Lo scià faceva tutto in nome di se stesso, ma gli ayatollah governavano in nome di Dio. Di colpo il tuo paese, la tua patria, non erano più tuoi. Dopo la rivoluzione avrei voluto fare un viaggio con mio padre. Avrei voluto andare una volta con lui fino a quel meraviglioso deserto persiano dove la sabbia brilla come oro sotto il sole. Un dito di latte di cammella con il pane secco. Un piattino di datteri e l’acqua raccolta col palmo della mano in una piccola fossa che sale dal cuore della terra. Poi avrei voluto dormire con lui sul tetto di uno di quei caffè nel deserto, dove puoi infilarti sotto il cielo come sotto una coperta blu. Neanche questo siamo riusciti a fare.

 

…infine, i luoghi dell’esilio e la lingua come unico specchio al mondo nel quale riconoscersi…

 

Negli appunti di mio padre tutto è antico, le montagne, il pozzo, la grotta, la scrittura cuneiforme, persino la ferrovia. Non penso che si possa scrivere un romanzo in questa terra nuova. Scrivo la mia storia nella lingua degli olandesi. Lo faccio perché questa è la legge della fuga. 

 

In questo modo, Scrittura cuneiforme, il romanzo dal quale ho tratto questi passaggi, si trasforma in un codice per decifrare la realtà: quella perduta e quella acquisita. Mentre nel romanzo di consacrazione, La casa della moschea, uno dei migliori romanzi degli ultimi dieci anni, la storia di una singola famiglia diventa affresco corale dell’intera storia dell’Iran.

 

 

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