Lettere dalla Siria

L’eccentrica ragazza partì in solitudine alla volta di un Medio Oriente vagheggiato, iconico, sperduto e affascinante come quello descritto da Doughty in Travels in Arabia Deserta, o nella copia de Le mille e una notte regalatale dalla zia quando era ancora bambina e custodita con cura, come la promessa dei luoghi inesplorati che l’attendevano.

Il viaggio si prospettava lungo e impegnativo, forse troppo per una ragazza apparentemente fragile, i cui modi compiti celavano in realtà la scintilla di un temperamento volitivo e non convenzionale.
L’avrebbe raggiunta l’amica di sempre, la fotografa capace di fissare nel tempo le sfumature cangianti del cielo e gli sguardi sfuggenti delle persone incontrate, unendosi al cammino con altrettanta curiosità verso una serie infinita di mondi possibili.

Malgrado le tante suggestioni, queste righe non sono autobiografiche. La ragazza che descrivo è Freya Stark, figlia di una coppia di artisti inglesi, che all’inizio del secolo scorso, armata di uno spirito d’avventura a dir poco inusuale rispetto alle sue coetanee aristocratiche, si tuffò anima e corpo in un’esplorazione dell’Oriente degna di Lawrence d’Arabia. Il viaggio che la Stark ci fa rivivere nell’intensa raccolta epistolare Letters from Syria, tradotta per la prima volta in italiano lo scorso mese di febbraio e pubblicata dalla casa editrice La Vita Felice, è molto diverso dai resoconti coloniali e paternalistici cui si dedicavano i gentiluomini europei del tempo: l’esperienza narrata dalla scrittrice è una scoperta dell’altro attraverso l’entusiasmo e la curiosità vivace di chi schiude la propria anima alla vita.

Scrive alla madre da Damasco:

 

“Sentire, e pensare, e imparare – imparare sempre: questo solamente significa essere vivi e giovani nel senso più profondo. […] Spero di non sentirmi mai infastidita da idee non mie, di non giudicare il mondo, con tutti i suoi cambiamenti nella sua crescita, secondo una serie di formule congelate. […] Questa è la giovinezza, non una questione di anni”.

 

… e da Brumana, in Libano, dove trascorre l’inverno del 1928:

 

“Il vento del Nord trasforma il mare in blu e verde, e il tramonto lo riempie di delicati riflessi color pastello, accendendo le colline e la neve come se una porta di fornace divampante venisse spalancata su di esse. La stessa roccia qui ha una grande varietà di colori, tutti luminosi. […] Ci sono milioni di fossili sepolti, così che uno pensa più che mai che il Mediterraneo sia uno stagno dove i bambini del mondo cominciarono a giocare per primi ai pirati”.

 

Da quella culla primordiale di civiltà, Freya Stark portò con sé un’emozione profonda, che assunse i contorni di una certezza da condividere appieno:

“Familiarità più che novità è ciò che tocca i nostri cuori – la rivelazione di un’armonia tra noi stessi e l’esterno. Forse la gioia della scoperta non risiede in quello che ci risulta strano, quanto piuttosto nell’improvvisa consapevolezza che siamo a casa in un nuovo orizzonte, esteriore o interiore non importa, affrancato in una terra da cui siamo attesi: che il nostro cuore o il cervello, viaggiatori esperti ma smemorati, riconoscono con gioia”.

 

 

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