Leonardo Sciascia: 100 anni di scetticismo contro il conformismo

Un gigante della letteratura del Novecento? Sì. Una figura divisiva nel panorama culturale italiano, tra detrattori e “sciasciani” convinti? Decisamente.

A cento anni dalla nascita, Leonardo Sciascia incarna ancora oggi il decoro e l’acume di un’Italia perduta, che a partire dalle contraddizioni delle proprie periferie – quelle meridionali su tutte – sapeva raccontarsi con schiettezza e consegnare al mondo visioni tutt’altro che provinciali.

Una periferia anni ’50 centro dell’universo, dove il paese natale di Racalmuto, che oggi si appresta a celebrare il centenario della nascita del figlio illustre, si fa espressione di una voce universale. Esattamente come è stato – ci piace ricordarlo – nel rapporto viscerale tra Bovalino, piccolo centro in provincia di Reggio Calabria, e lo scrittore Mario La Cava, che con Sciascia condivise in modo intimo questo senso di “periferia cosmopolita”. Non a caso, il fitto carteggio intercorso tra i due è pubblicato da Rubbettino Editore, per la curatela di Luigi Tassoni e Milly Curcio, col titolo Lettere dal centro del mondo 1951-1988.

Per entrambi, il centro del mondo sembra corrispondere a una spazialità interiore, che tuttavia non tradisce il legame con le origini né l’attualità stringente dell’epoca.

Lo scrittore di Racalmuto, che mantiene a lungo la propria macchina da scrivere nella casa di campagna della Noce, si proietta sulla scena culturale come uno degli intellettuali più europei del Novecento, quando ancora tale definizione andava a braccetto con quella di “scrittore” e godeva di un’autorevolezza fuor di dubbio.

Un centenario pesante, insomma, che ci costringe a paragoni con la scrittura e la cultura del nostro tempo, avvilite da opinionismo e bookbloggerismo, nella cui melma sembra essersi smarrita la prospettiva del pensiero alto. Un centenario al quale ne seguiranno altri di segno simile, nell’inesorabile tripletta che intreccia Sciascia (1921), Pasolini (1922) e Calvino (1923), al cospetto della quale c’è solo da impallidire.

Dalla remota provincia siciliana, Leonardo Sciascia incrocia a Roma il più amato tra i contemporanei, Jorge Luis Borges; battibecca con Moravia; approfondisce l’indole noir della propria cifra stilistica, che senza scomodare troppo Dostoevskij attinge a un retroterra nel quale, spesso, delitto e castigo operano per vie interscambiabili.

Alimenta l’amore per il cinema, criticando, talvolta aspramente, la trasposizione di alcune sue opere, finanche le pellicole eccellenti del regista Elio Petri al quale, a proposito de A ciascuno il suo scriverà: “Ho fiducia che farai un buon film, ma sarà in ogni caso, un film che non avrà niente a che fare col racconto. Il mio personale rammarico […] riguarda soprattutto la tua intenzione di non fare un film politico. Io scrivo soltanto per fare politica”.

Osservatore sottile, critico e narratore di un’Italia dalle variegate personalità intellettuali, con le quali Leonardo Sciascia ha condiviso stima e acredini, in un costante desiderio di dialettica, confronto politico, etico, nel segno di una consapevolezza: l’onestà della parola e la responsabilità della scrittura nell’esercizio dello scetticismo contro il conformismo.

Il mio omaggio anche su Glicine Associazione e Rivista.

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