L’anno di Arturo e della sua isola

“L’isola, che stendeva, in basso, la sua forma di delfino, fra i giochi di spume, coi fumi delle sue casette e il brusio delle voci, mi appariva lontanissima, e non più maliosa per me, che cercavo malíe più severe”.

Arturo Gerace, il ragazzino battezzato col nome di una stella, ci accoglie così sul piccolo molo procidano. Veste un pantalone sgualcito, arrotolato sui polpacci e un incanto bambinesco, che tutto trasfigura secondo la volontà caleidoscopica, potente come un talismano, della penna che lo ha generato, quella di Elsa Morante.

Ci affidiamo al piccolo “Moro”, dunque, come lo apostrofa scherzosamente suo padre Wilhelm, rimarcando la distanza da sé a cominciare dal colore dei capelli. Sì, perché Arturo non ha nulla della bionda maestà del suo genitore, mezzosangue tedesco, e nulla condivide con lui se non il tempo fugace concessogli le rare volte in cui questi fa ritorno a Procida. Visite che assumono i contorni dell’epifania: Wilhelm Gerace, apparizione numinosa col fazzoletto a fiori annodato al collo, è un dio irritabile, smanioso di ripartire per terre sconosciute.

Al netto delle brevi parentesi, dal giorno della nascita – giorno infausto, che vede morire di parto la giovane madre – Arturo vive abbandonato. Il “balio” Silvestro lo svezza a latte di capra, per poi lasciarlo all’affetto della cagnetta Immacolatella, unica compagna di scorrerie per mare e per terra. La sua solitudine, a tratti malinconica, a tratti idilliaca, si trascina nelle stanze vuote della “Casa dei guaglioni”, antica dimora interdetta alle donne, ereditata da Wilhelm per essere stato, in gioventù, il guaglione favorito del vecchio “Amalfitano” che ci viveva.

Seguiamo Arturo per le strade panoramiche che ci conducono alla sua tenuta, ovvero agli stanzoni svuotati, habitat di gufi e lucertole turchine. Mentre perlustriamo le sale in rovina, tra libri antichi, cimeli di mondi lontani e vite transitate, ecco apparire all’improvviso Wilhelm Gerace in compagnia di una novità: Nunziatella.

È questo il nome della fanciulla che oggi non esiteremmo a definire “sposa bambina”, arrivata da Napoli con l’inganno e una borsa di icone sante. Nunziatella è “il nome della rosa”, impronunciabile per Arturo poiché proibito e bramato. Le sue forme popolane, a un primo sguardo spregevoli, come vuole la legge dei guaglioni – “Le donne erano sempre affaccendate, sfuggenti, si vergognavano di se stesse, forse perché erano così brutte; e andavano come animali intristiti, diverse in tutto dall’uomo, senza eleganza, né spavalderia” – un attimo dopo incarnano la sacralità di femminino.

I tratti di Nunziata si sovrappongono a quelli di una piccola foto sgualcita, ennesimo cordone ombelicale che lega Arturo all’isola. Nunziatella è Circe, sirena, matrigna, amica, nemica, sorella e, infine, madre a sua volta del piccolo Carmine, lui sì, vero ritratto di Wilhelm. Così si consuma quella che il critico Cesare Garboli definisce una “Achilleide”, ovvero un’Odissea alla rovescia, nella quale Procida è un’Itaca sottosopra e il viaggio non si svolge mai all’esterno del Sé. Dove ci conduce questo viaggio uterino? Dritto al cuore della verità, senza più trucchi, né malíe.

I velami cadono per sempre sulla soglia della Terra Murata, come i procidani definiscono il penitenziario in cima all’isola, confine oltre il quale sono rinchiusi i misteri di Wilhelm Gerace. La battaglia, sia pur consumata in un bicchier d’acqua, non rinuncia ai toni edipici e universali, concludendosi con l’unico epilogo possibile: la fuga dell’eroe. Facciamo ritorno al molo e saliamo a bordo del “vapore” in compagnia di un Arturo irriconoscibile, che ci rivolge un’amara richiesta: 

“Senti. Non mi va di vedere Procida mentre s’allontana, e si confonde, e diventa come una cosa grigia… preferisco fingere che non sia mai esistita. Perciò, fino al momento che non se ne vede più niente, sarà meglio ch’io non guardi là. Tu avvisami, a quel momento”.

 

Ne parlo sulla rivista Medieterraneo e dintorni.

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