Dopo aver percorso l’avvincente viaggio letterario, filosofico e fisico sulle tracce del Mediterraneo laico di Averroè – lungo la rotta rovente, colorata di maioliche, inebriata di spezie, cuoio e tè che dall’Andalusia dell’unico e prezioso califfato d’Occidente mi ha condotta al Marocco più autentico – eccomi ripartire per una nuova avventura, stavolta solo narrativa, tra le più belle pagine della letteratura di viaggio.
È il 26 agosto del 1933 e stiamo per salpare dal porto di Venezia alla volta di Trieste, dove il piroscafo “Italia” ci cullerà fino all’isola di Cipro, per proseguire ancora oltre, molto lontano…più del “lontano” conosciuto all’epoca, alla volta dell’Oxiana, la leggendaria regione afghana al confine con la Russia lambita dal corso dell’Oxus, l’attuale Amu Darya, il fiume più lungo dell’Asia Centrale.
Siamo in compagnia di Lord Robert Byron, colui che Bruce Chatwin, maestro del viaggiare narrando e viceversa, nella splendida prefazione al testo definisce «Gentiluomo erudito, eccentrico ed esteta […] che in un’epoca ricca e felice per la letteratura di viaggio riuscì agevolmente a scrivere il libro che spicca fra tutti come il “capolavoro”: La via per l’Oxiana».
Sempre il “viatico” di Chatwin ci avverte che il dono della descrizione lirica di Byron, che pure non era un accademico, ha spesso la meglio sulla pura erudizione e riesce a tratteggiare lo spirito di una civiltà attraverso le sole forme dell’architettura che essa ha espresso. Come dargli torto davanti a una descrizione di Santa Sofia che racchiude in sé l’intero Scisma d’Oriente?
“L’esistenza di Santa Sofia è atmosferica; quella di San Pietro, concreta in modo incombente, soverchiante. L’una è una chiesa per Dio; l’altra un salotto per i suoi rappresentanti. L’una è consacrata alla realtà, l’altra all’illusione. Perché Santa Sofia è grande, San Pietro è spregevolmente, tragicamente piccolo”.
Nel corso del lungo viaggio alla volta dell’Asia Centrale, il tono caustico dell’Autore, talvolta odiosamente saccente e altre volte quasi paternalista, si scioglie in descrizioni di pura suggestione, che trascinano il lettore nell’atmosfera autentica e genuina di un altrove forse perduto per sempre:
“La bellezza di Gerusalemme, nella sua cornice naturale, può essere paragonata a quella di Toledo. […] Ancora un’immagine “dell’Oriente” immune dalle masse in abiti da passeggio e occhiali cerchiati di corno. Ecco avanzare l’arabo del deserto coi baffoni bellicosi, avvolto nell’ampio manto di cammello, intessuto di fili d’oro; la donna araba dal volto tatuato e il vestito a ricami, che porta un cesto sul capo; il prete dell’Islam dalla barba breve, che inalbera un lindo turbante bianco drappeggiato attorno al fez; l’ebreo ortodosso coi ricciolini, il cappello di castoro e la palandrana nera; […] preti e monaci egiziani, abissini e armeni”.
E ancora, dalla Mesopotamia al cuore della Persia…
“L’orizzonte era chiuso da cerchie parallele di montagne, punteggiate di fuochi. Da oriente sopraggiungeva la notte con una schiuma di nuvole. In basso, nella pianura, un velo di fumo, alberi e case annunciavano Mashdad, la città santa degli sciiti. In mezzo alla fredda bruma autunnale è lampeggiata una cupola d’oro, e un’altra, azzurra, è apparsa nella sua imponenza”.
…e dell’Afghanistan, meta ultima del nostro viaggio:
“Gli afghani si aspettano che sia l’europeo ad adattarsi alle loro regole, invece che loro alle sue […]. Questa finalmente è l’Asia senza complessi d’inferiorità”.
Un lungo viaggio, costellato di peripezie e scoperte sorprendenti, che a leggerlo oggi lascia un po’ d’amaro in bocca, nella malinconica certezza d’aver pagato un prezzo davvero iniquo alle chimere della globalizzazione. Un diario di emozioni e meraviglie. Un inno al viaggio vero, quello che si compie verso l’altro.