La Via della seta calabrese

Cosa lega la Calabria, estrema propaggine del continente europeo – finis terrae e Medio Oriente d’Occidente, terra antica che non fatichiamo ad associare ai greci dimenticandoci di tutte le altre genti che l’hanno traversata per secoli – che cosa la lega all’Asia più profonda, all’amata e temuta Cina quanto alle lande che salutano il primo sole del mondo? Null’altro che un filo di seta.

Attenzione, non un filo esile, ché nel nostro immaginario la seta è per antonomasia un’impalpabile delicatezza. Nient’affatto! Un filo tra i più tenaci e resistenti al mondo, poiché nella realtà questo tessuto, vero e proprio miracolo della natura, è capace di opporre al tempo e all’usura la durevolezza che serve a ripagare almeno in parte la fatica valsa a produrlo.

Museo della Seta di San Floro (CZ)

 

Un filo di seta, dunque, è un viaggio che parte da lontano e attraversa molte strade, non una sola, quella più nota e favoleggiata che va sotto il nome di “Via della seta”. Quel nome è invenzione recente, ottocentesca, mentre le “vie della seta”, declinate al plurale, sono molteplici e sfumano nel tempo e nello spazio, secondo i contorni di una storia che precede di gran lunga l’orientalismo e le suggestioni di un tempo in cui gran parte del patrimonio serico aveva già disperso le proprie materie prime e i canali di approvvigionamento originali. È un viaggio che va percorso a ritroso, prima di ritrovarsi nuovamente all’oggi e scoprire quanto e cosa sia sopravvissuto di una tradizione tra le più antiche dell’umanità.

Come ogni viaggio che si rispetti, tuttavia, anche quello nel quale mi accingo a condurvi – non come esperta della seta o storica della materia, ché studiosi di ben altro calibro possono accompagnarvi più lontano e in profondità, ma come umile narratrice di cose perdute – il viaggio parte, dicevo, da un luogo e da un tempo precisi. Immaginiamo di percorrere il ciglio di una strada, una via nota, benché non ancora annoverata tra quelle su cui viaggiano i preziosi rotoli di stoffa. Una via consolare dell’impero, ab Rhegio ad Capuam, che collega Roma a una regione meridionale, all’epoca per nulla periferica, come saremmo portati a credere. Un’area produttiva ed estrattiva di vaste dimensioni e proficuo rendimento, cui il caput mundi attinge a piene mani per rifornirsi, ad esempio, del pregiato legname dei boschi delle Serre, col quale plasmare invincibili galee contro i punici.

Immaginiamo che da questa bisettrice che attraversa per il lungo la terra che, all’epoca, portava per sé soltanto il nome Italia, si diramino svincoli e strade minori in grado di collegare approssimativamente l’entroterra ai due mari che la lambiscono, Tirreno e Jonio. Su queste stradicciole, a partire da un preciso momento storico (tra il VI e il X secolo), vedremo viaggiare assieme a noi – viandanti grezzi e sprovveduti – carovane cariche di gelso e famelici bachi d’Oriente. Convogli che si affrettano a battere, superando i nostri passi, le primitive province di Reggio Calabria, Catanzaro e Cosenza, divenute all’improvviso rotte di un commercio febbrile, poiché legato a uno stravizio, vera e propria dipendenza perversa, cui l’alta società romana non sapeva più rinunciare: una droga chiamata seta.

Tutta colpa di Giustiniano e della città di Bisanzio! Città ponte del Mediterraneo, crocevia di materie prime, usanze, maestranze, sogni e deliri di onnipotenza. Per quella rotta, la seta d’Oriente approdò per la prima volta ai lidi occidentali e per la prima volta si apprese come il color porpora che veniva da Tiro, Gaza e Beirut, luoghi adusi da tempo alla tintura tessile, riluceva di toni assai più brillanti se applicato alla nuova fibra proteica. Giustiniano e Teodora andarono in visibilio, al punto che la seta e la porpora divennero il binomio simbolico del potere e della seduzione di Roma.

Una “Via della seta” divenne, così, la rotta calabra che si scoprì centro nevralgico e trade union tra Oriente e Occidente nel lucroso andirivieni. Quando e perché ciò accadde lo veniamo a sapere da un chiacchiericcio del tempo carpito alla prima stazione di sosta di quello che, ormai, è diventato un pellegrinaggio blasfemo:

“Costa troppo! La materia prima scarseggia, le trasferte nella Persia sasanide e nelle Indie sono più esose di un tempo. Un salasso! Tuttavia, pare che l’imperatore Giustiniano abbia la soluzione: avrebbe chiesto a una comunità di monaci nestoriani di esportare illegalmente le uova dei bachi dalla Cina. È fatta!”.

Così ci avrebbero riferito, stando alla fonte di Procopio; altri, più in là nel tempo, tireranno in ballo Marco Polo. Ciò che è certo, è che quando approdiamo ai rigogliosi lidi ionici di Scolacium, amministrati dal grande Cassiodoro, monaci e contadini di zona confermano che già da lungo tempo è richiesto loro di coltivare alberi di gelso in grande quantità e sfamare, con le foglie larghe e succulente che questi producono, i bruchi insaziabili venuti da chissà dove, le cui bave tessono un bozzolo benedetto. Non abbiamo motivo di dubitarne, ché Cassiodoro modellò queste terre a immagine, usi e cultura dell’Accademia cristiano-siriaca di Nisibis.

Bachi della Coop. “Nido di Seta”, San Floro (CZ)

 

Nulla sanno però, queste mezzadre-tessitrici dalle guance rubiconde e lievemente irsute, dell’antica leggenda cinese secondo la quale fu l’imperatrice Xi Ling-Shi che, passeggiando nei giardini reali, dopo aver toccato un bruco per curiosità ne trasse un filamento caldo e lucente, lo avvolse e lo lavorò fino a ricavarne un fazzoletto. La Cina non evoca un bel niente all’umanità di quaggiù, perlopiù donne e bambini, che ci accoglie nell’immenso gelseto ai piedi della città di Katantzárion (Catanzaro, dal verbo greco katartizen, ovvero “preparare”, “confezionare”). Non ne sapranno di più i braccianti e le tessitrici della provincia Ulteriore né quelli del cosentino; gli uni e gli altri, al pari dei catanzaresi, legati alla gelsicoltura e alla bachisericoltura da gesti lontani a loro stessi.

A questo punto, il nostro viaggio sulla “Via della seta” calabrese fa un salto in avanti, cosicché ci ritroviamo in pieno Medioevo, epoca documentata da lasciti e rogiti notarili: nel reggino, quasi tutti a beneficio della locale comunità ebraica, che diede un buon impulso all’incremento della produzione; al pari della valle del Crati, fino a Longobucco. Catanzaro, regina indiscussa dell’arte serica, è ormai un’enclave di Damasco – e chissà che a me, figlia zingara di questa terra, il “mal di Siria” non mi scorra nel sangue! – tanto che il tessuto stesso ne trae omonimia (“damasco”, “siricu”), fino a ottenere, nel 1519, la pubblicazione dei primi “Statuti dell’Arte della Seta di Catanzaro”, primi capitoli d’Italia.

Capitolo della Seta di Catanzaro, Museo della Seta di San Floro (CZ)

 

Nel Settecento, Catanzaro e il suo circondario sono capitale europea della seta.

Nel nostro giro in calesse per le ventose contrade – stavolta, vestiti pure noi di preziosi broccati – riusciamo a contare 7000 setaioli e 1000 telai.

Poi, lentamente, il declino e la morte di tutto. Piante, bachi e famiglie assieme. Quel che accadde lo racconta, in lacrime, l’ultima tessitrice che abbia memoria dei propri gesti. Lei sola, rugosa come una tartaruga, piange in nostra presenza la fine della seta di Calabria, ferita a morte dal monopolio vessatorio del nuovo governo, che tutto ha estirpato e trasposto lassù, all’Altitalia.

È davvero la fine del nostro viaggio sulla “Via della seta” calabrese? No, per fortuna, solo una lunga e triste parentesi. Un vuoto colmato da nuove e illuminate generazioni di ritorno – la mia generazione, zingara ed elastica, che mette a dimora nella terra delle radici quanto appreso là fuori, nel mondo – così che negli anni Duemila, a San Floro (CZ) come a Mendicino (CS) e in altri luoghi che forse tralascio per ignoranza, sono tornati a fiorire i gelsi, a nutrirsi i bachi, a filare e “lanciare navette” da telaio le figlie, le nipoti e le pronipoti delle donne che ci hanno intrattenuto nell’immaginario.

Cosa significa oggigiorno dedicarsi alla bachisericoltura è un capitolo a sé. Si tratta di un processo talmente lento, faticoso, articolato e unico che descriverlo richiederebbe altrettanto spazio. Un procedimento che implica fatica e passione tali che solo dei sanissimi malati di mente avrebbero potuto praticarlo ai nostri tempi. Quei matti sono i ragazzi della Cooperativa “Nido di Seta”, a San Floro, nuova piccola capitale della seta calabrese nel mondo, e coloro che, nel borgo di Mendicino, gestiscono il Museo Dinamico della Seta e le iniziative di recupero connesse. Andate a trovarli, gli uni e gli altri, e capirete da soli di quale sostanza sono fatti i sogni e, talvolta, le identità locali, per le quali non serve una “nuova narrazione”. È sufficiente quella “vecchia”.

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