La tormentata canzone d’Aspromonte

Questa estate di fuoco mi ha visto attraversare la Calabria in lungo e in largo per farle dono delle parole che, nei miei scritti, ho scelto per narrarla. Parole con le quali ho stretto un patto di verità prima ancora che qualcuno avesse la bontà di imprimerle su carta. La verità di chi abita un paradiso che fa presto a tramutarsi in inferno, come avvenuto nella tragedia del grande rogo del Parco Nazionale d’Aspromonte.

Una tragedia che ha cristallizzato ogni evento volto a porgere una carezza alla montagna candida, aspra (dal termine grecanico asper, “bianco”) di Corrado Alvaro e delle preziose comunità greche di Calabria che ancora la abitano. L’Aspromonte è andato in fumo – come e più che vedere fondere sotto il nostro sguardo attonito i Bronzi di Riace! Hanno commentato le guide ambientali che lo conoscono come le loro tasche – se c’è colpa, misfatto e vergogna umana sarà la montagna stessa a dirlo, come sempre ha fatto, perché la natura innalza inni d’eterno che fanno impallidire l’omertà dell’uomo.

Inni d’eterno, sì! Come le odi e le epopee antiche, le mitologie tramandate di bocca in bocca sin dalla notte dei tempi, le struggenti note della lira calabrese e cretese, dell’organetto e della chitarra battente che vanno risuonando per fiumare e calanchi. Come le nenie delle mammane, la risata infernale della Narade, che i campanacci delle capre intagliati a colpi di superstizione servono a tenere lontana. Come le pagine dei grandi romanzi alvariani, le chine, le acqueforti e i carboncini degli artisti del Grand Tour e di Escher. Ogni forma d’arte e d’antropologia, ogni scienza istintiva, ogni mitologia tribale d’amore, morte e lupare ha consegnato la montagna d’Aspromonte all’eternità, facendone un luogo dell’anima che, in quanto tale, non potrà morire mai.

“Dunque (rispose sorridente il conte)/Ti pensi a capo nudo esser bastante/far ad Orlando quel che in Aspramonte/egli già fece al figlio d’Agolante?/Anzi credo io, se tel vedessi a fronte,/ne tremeresti dal capo alle piante;/non che volessi l’elmo, ma daresti/l’altre arme a lui di patto, che tu vesti”.

Così scrive Ludovico Ariosto, citando nel suo capolavoro, L’Orlando furioso (canto XII, ottava 43), l’opera che lo ispirò e fece da prologo alla più nota Chanson de Roland. Si tratta de La Chanson d’Aspremont, una delle massime espressioni della letteratura medievale normanna, opera in 28 canti ambientata in Aspromonte. È qui che si infrange il sogno d’amore tra il cavaliere Ruggieri e Gallicella, mentre la città di Risa (Reggio Calabria) cade in mano saracena. Una “chansons des gestes” che per la prima volta nella storia proietta l’estremo lembo d’Italia dal Mediterraneo a oltralpe, laddove le stesse suggestioni, in un’epoca e in una modalità artistica differente, muoveranno giovani aristocratici alla scoperta di un Meridione esotico.

Saranno i pittori, gli scultori e i poeti del Grand Tour a tratteggiare la “Leucopetra” (pietra bianca dei greci) in forme d’arte di rara bellezza. I suggestivi borghi arroccati, semiabbandonati, col loro carico di vestigia e leggende resteranno impressi per sempre sui fogli degli artisti svizzeri, nelle cronache dello storico Jean Rousset, che con una primordiale cinepresa condusse qui le sue ricerche antropologiche, e in quelle dello scrittore e paesaggista britannico Edward Lear, che nei suoi Journals descrisse i percorsi selvaggi che, sino a oggi, il Parco Nazionale ha riproposto ai visitatori lungo il cosiddetto “Sentiero dell’inglese”.

L’apparire di Pentedattilo è perfettamente magico, e ripaga qualunque sacrificio fatto per raggiungerla. Selvagge sommità di pietra spuntano nell’aria, aride e chiaramente definite in forma (come dice il nome) di una mano gigantesca contro il cielo, le case di Pentedattilo sono incuneate all’interno delle spaccature e dei crepacci di questa piramide spaventosamente selvaggia, mentre tenebre e terrore covano sopra l’abisso attorno alla più strana abitazione umana”.

(Edward Lear, 1847).

Pentadattilo, le “cinque dita” di roccia (penta daktylos) con l’abitato posto ai piedi di uno spuntone, affascinò tanto l’artista Maurits Cornelis Escher, incisore e grafico olandese, che al borgo dedicò una serie di quattro stupende xilografie, citandolo in un articolo apparso sul De Goene Amsterdammer.

Era la notte del 16 aprile 1686 quando il barone Bernardino Abenavoli, accecato dalla gelosia per aver perso la donna amata, fece irruzione nel Castello degli Alberti, allora marchesi di Pentadattilo, e soffocò nel sangue l’intera famiglia a colpi di archibugio e pugnale, inclusa la sua bella Antonietta: fu la “Strage degli Alberti”. Da allora, la profezia che aleggia sul borgo vuole che la “Mano del diavolo”, presto o tardi, si richiuderà sulle colpe degli uomini.

Uomini che furono pastori, lavoratori di fatica e pure criminali senza scrupoli, con volti intagliati come legno d’ulivo, pronti a patteggiare col demonio. 

Non è bella la vita dei pastori in Aspromonte, d’inverno, quando i torbidi torrenti corrono al mare, e la terra sembra navigare sulle acque”.

Dice lo scrittore Corrado Alvaro nel romanzo Gente in Aspromonte (1930).

Partendo dalla sua casa natale, oggi casa museo, è possibile ripercorrere le pagine che con dolente poesia descrivono l’universo aspromontano, a partire dal piccolo centro storico di San Luca, con la chiesa madre di S. Maria della Pietà e i resti di palazzo Stranges, citato nel medesimo romanzo e in L’uomo nel labirinto. Tappe del parco letterario sono a tutti gli effetti la fiumara del Buonamico e i resti dell’antica Potamìa, abbandonata nel XVI secolo e citata in La cavalla nera, fino a giungere al santuario della Madonna di Polsi, altro luogo in cui il sacro si intreccia al profano, così come l’istituzione costituita si inchina all’antistato e all’anticristo.

Luoghi dal silenzio sospeso, tra fitti boschi e borghi abbandonati, al cospetto di una montagna che incanta e rivela forme plasmate dal tempo, che né le intemperie naturali né lo scempio sanno vincere, come la Valle delle Grandi Pietre.

Luoghi che ancora tornano a tessere narrazioni filmiche e letterarie, dai set di Mimmo Calopresti al paese di Africo, che partorisce le Anime nere e La maligredi di Gioacchino Criaco.   

Un viaggio nel tempo, nella natura e nella letteratura, dritti al cuore di una Calabria che si racconta da sé, a scapito di chi vuole farla tacere e morire di omertà così come di fuoco, incuria o arretratezza.

Ancora una volta, l’Aspromonte violato risorgerà come Araba Fenice dalle proprie ceneri. Ancora una volta Natura e Bellezza insegneranno all’Uomo l’immortalità, il valore di ciò che si perpetua a prescindere dai gesti scelerati che egli stesso mette in atto, dimenticandosi d’essere parte di una narrazione che lo trascende.

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