Questo scritto è un capriccio di gola. Altra pretesa non ha che evocare in tua compagnia, lettore, voglie e sfizi a fior di lingua, esattamente come quelli che lo hanno preceduto nella storia della critica letteraria e delle recensioni. Solleticare il palato per il tramite dell’immaginazione e del ricordo, per il mezzo della pagina e il solo scopo di suscitare languori, allacciare connessioni remote tra la regione delle gemme gustative, il sistema nervoso periferico e l’illusione chiamata “memoria dei sapori”, traccia in controluce pronta a scattare al cospetto d’una parola.
Corteccia somatosensoriale. Questo il luogo misterioso in cui sprofondò la penna dello scrittore Marcel Proust il giorno in cui decise di consegnare all’eternità, non meno che al nostro apparato sensivo, la celeberrima madeleine inzuppata nel tè:
“[…] lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. Portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto di madeleine. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita… non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine”.
Ecco come un insulso dolce francese si è potuto cristallizzare per sempre tra le pagine della narrativa mondiale e il sistema nervoso di ciascun lettore che, abbandonandosi, ne ha evocato gusto e sofficità, assaporandolo con la mente così come la perversione dell’autore voleva che fosse. Riavvolgendo pure lui quel nastro sbobinato in un cantuccio, lo stesso che collega un sapore a un’emozione recondita, “memoria sensoriale ed emotiva”. Questo il potere tangibile della parola scritta. La malia concreta che dalla lettura smuove tutti e cinque i sensi, costringendoli a lavorare su una dimensione che nei fatti non li tange.
Italo Calvino ne sviscerò potenzialità e pericoli nell’opera dal titolo Sotto il sole giaguaro, raccolta di racconti pubblicata postuma (Garzanti, 1986) e dedicata all’indagine dei cinque sensi. Sapore Sapere (Sotto il sole giaguaro) è il secondo dei racconti, quello che dà titolo all’opera e omaggia il senso del gusto attraverso la vicenda di una coppia in viaggio in Messico, terra speziata e intensamente aromatica, in grado di risvegliare in entrambi l’eros ormai sopito. Perché tutta questa ricchezza di sapori? La risposta di Calvino all’interrogativo prende forma pasto dopo pasto, fino a diventare tanto sconvolgente quanto antropologicamente affascinante. Un gioco metafisico, un’aderenza analogica e indissolubile tra il sesso, il cibo e la narrazione sensoriale che si riesce a farne. Mangiare ed essere mangiati, possedere ed essere posseduti, morire e rinascere. In una sola parola, alimentarsi. Non a caso il protagonista conclude con un ultimo pasto simbolico:
“Sotto la pergola di paglia d’un ristorante in riva a un fiume, dove Olivia m’aveva atteso, i nostri denti presero a muoversi lentamente con pari ritmo e i nostri sguardi si fissarono l’uno nell’altro con un’intensità di serpenti. Serpenti immedesimati nello spasimo di inghiottirci a vicenda, coscienti d’essere a nostra volta inghiottiti dal serpente che tutti ci digerisce e assimila incessantemente nel processo d’ingestione e digestione del cannibalismo universale che impronta di sé ogni rapporto e annulla i confini tra i nostri corpi e la sopa de frijoles, lo huacinango a la veracruzana, le enchiladas”.
Annullare i confini tra il tangibile e l’intangibile, tra il desiderio e il consumo del desiderio. Colmando la fame eterna che divora l’uomo, nel suo eterno divorare. Una fame che nella storia della letteratura mondiale passa per pagine leggendarie e succulente: dai memorabili pasti di Lucullo, Lucio Licinio, i “banchetti luculliani” di classica memoria, alle praline di cioccolato miracoloso che Vianne Rocher, la pasticcera-curandera nata dalla penna di Joanne Harris, dispensa a piene mani nel romanzo Chocolat (1998), “imbrattando” di peccaminoso cacao la purità mortifera della Quaresima.
Accade poi che il senso del gusto si scontri con quello del buon gusto e col senso della misura, che debordi e strafoghi e ci si ingozzi. Tanto che certi pranzi letterari sono passati alla storia sia per la monumentalità delle portate che per il sottotesto che le accompagna, servendo al lettore veri e propri trionfi di ostentazione. Un esempio su tutti? L’indimenticato pranzo de Il Gattopardo, al quale Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci invita per conto del principe di Salina presso la tenuta di Donnafugata, là dove la tradizione della Sicilia borbonica, contadina e dei nuovi ricchi trattiene per sé il privilegio di un timballo di maccheroni quale ultima forma di resistenza contro l’annessione altitalica, del tutto transalpina, di un insipido potage.
“Il Principe aveva troppa esperienza per offrire a degli invitati siciliani in un paese dell’interno, un pranzo che si iniziasse con un potage, e infrangeva tanto più facilmente le regole dell’alta cucina in quanto ciò corrispondeva ai propri gusti. […] Perciò quando tre servitori in verde, oro e cipria entrarono recando ciascuno uno smisurato piatto d’argento che conteneva un troneggiante timballo di maccheroni, soltanto quattro su venti persone si astennero dal manifestare una lieta sorpresa. […] L’oro brunito dell’involucro, la fragranza di zucchero e di cannella che ne emanava non erano che il preludio alla sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squarciava la crosta: ne erompeva dapprima un vapore carico di aromi, si scorgevano poi i fegatini di pollo, gli ovetti duri, le sfilettature di prosciutto, di pollo, di tartufi impigliati nella massa untuosa, caldissima dei maccheroncini corti cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”.
Se in questo caso il cibo rappresenta l’espressione di privilegi atavici, fasti ormai decaduti che tentano con un ultimo colpo di coda di riaffermare un’identità violata, nell’opera Il pranzo di Babette (1950) della scrittrice danese Karen Blixen, la preparazione del pasto si ammanta di un’aura salvifica e catartica. L’ex cuoca parigina, Babette Hersant, al pari di una Vianne ante litteram, decide di offrire alla comunità che la ospita in un piccolo villaggio della Norvegia un pranzo sontuoso, capace di restituirle tutti i piaceri terreni di cui una rigida impostazione puritana l’aveva privata. Un pranzo per il quale non si bada a spese, che la “memoria gustava” richiama nelle portate impresse nella storia della letteratura: dal leggendario brodo di tartaruga al vino Amontillado.
Volendo trovare il rovescio della medaglia, ovvero avventurarci nei desolati meandri della fame, nel vuoto di un ventre, una bocca, un’interiorità priva o incapace di godere del gusto, dobbiamo percorre i sentieri anoressici e bulimici degli autori che vi si accostano come un doppio necessario al cibo stesso. Un suo contraltare. Su quest’ara spoglia scelgono di immolarsi, ad esempio, scrittori come Amélie Nothomb, che con il suo Biografia della fame (2004) chiude una trilogia espressamente dedicata al senso del languore come arma contro la pienezza. Dal suo originale ribaltamento prospettico, Nothomb tematizza la fame in rapporto al cibo, addirittura come oblio per la memoria, in assoluta opposizione alla citata madeleine di Proust. Conoscere la sensazione della mancanza, il desiderio inappagato per accedere al controllo della volontà, a una vita capace di spingersi oltre i confini della fisiologia e della carne per farsi carico delle proprie ansie esistenziali.
“Esiste una fame che è solo di cibo? Esiste una fame del ventre che non sia indizio di una fame più generalizzata? Per fame, intendo quel buco spaventoso di tutto l’essere, quel vuoto che attanaglia, quell’aspirazione non tanto all’’utopica pienezza quanto alla semplice realtà: là dove non c’è niente, imploro che vi sia qualcosa”.