La lezione di Javier Marías

Quando muore uno scrittore muoiono decine di mondi possibili. Questo mi capita di pensare ogni volta che una penna, una voce, un immaginario lascia la dimensione fisica di questo mondo per ricongiungersi, così amo credere, a quella misteriosa e ancestrale alla quale attingeva le proprie visioni. I mondi possibili, appunto. Ciò vale a maggior ragione per Javier Marías, madrileno classe ‘51, la cui perdita lascia un vuoto nella letteratura contemporanea e nel medagliere dei Nobel mancati. In ciascuna delle sue opere vero e verosimile, fatti compiuti e fatti irrealizzati, quel che è stato e quel che avrebbe potuto essere convivono alla pari, poiché l’atto non può disgiungersi dalla potenza e viceversa. Ché il controfatto non è meno concreto e plausibile del fatto. È tale il presupposto per cui il narrare e il contronarrare creano dapprima nella mente dello scrittore, poi sulla carta, una trama fitta, densa, lirica, magmatica. Una tarma che diventano due, tre o quattro assieme, moltiplicando il testo in una megalomania digressiva, la stessa che, a ben guardare, si avvicina al pensiero del nostro Gesualdo Bufalino quando ne Il malpensante rivendica con fierezza, “varianti: non rifiutarne nessuna, ma recitarsele insieme, raddoppiando il testo e l’estasi di dominarlo. Un testo multiplo è più vero d’ogni perfezione finale”

Prolisso fino alla nausea, devo ammettere che Marías mi ha conquistata per sfinimento. Come quegli amanti insistenti che non mollano la presa, ti trascinano sul loro terreno di battaglia e là, dopo averti sfibrato, ti rendono parte insolubile del loro gioco perverso. Ci si può solo arrendere, capitolare, finire con l’amare profondamente ciò che all’inizio si detestava. Questo è il genere di resistenza richiesta al lettore che si accinge per la prima volta, come feci io, ignara e disarmata, a Berta Isla (2017) e al mondo parallelo del consorte, quel Tomás Nevinson che oggi pretende di fare titolo a sé, ultimo regalo di Marías al suo pubblico (2021). Uno “sforzo”, come si ha il cattivo gusto di definire la più genuina delle attività cerebrali, che si traduce in un invito esplicito a superare i propri limiti e ancor più quelli del mercato letterario, poiché Marías lo richiede in egual misura ai lettori, agli editori, alla critica, a tutta la compagnia cantante che ripiega più facilmente nella zona confortevole della vacuità, nascondendosi dietro un dito. Non un vezzo né un esercizio di stile fine a se stesso, piuttosto un metodo. Un procedere risoluto nell’affermare la propria capacità di esplorare e restituire altri mondi, tutti quelli che non essendosi compiuti esistono comunque oltre la linea di demarcazione del possibile.    

“Noi siamo come il narratore in terza persona di un romanzo” – spiega Tupra a Nevinson in Berta Isla – “È lui che decide e racconta, ma nessuno può interpellarlo né mettere in dubbio quello che dice. […] viene creduto e ci si fida di lui; quindi, si ignora perché sa quello che sa e perché omette quello che omette e come mai ha il potere di determinare il destino di tutte le sue creature […] È evidente che c’è, ma al tempo stesso non esiste, o viceversa, è evidente che esiste, ma al tempo stesso è introvabile. […] Detto in altre parole, il narratore in terza persona, onnisciente, è una convenzione che si accetta”.

Un procedimento che muove, sovente, da un incipit funereo. Avviene, ad esempio, in Un cuore così bianco (1992), opera edita in Italia da Donzelli, cui va riconosciuta la lungimiranza della scoperta prima che Einaudi si accaparrasse tutti i titoli, e che si apre proprio col suicidio inspiegabile di una donna appena tornata dal viaggio di nozze: Luisa, la protagonista, si chiude in bagno, si spara e affida allo scrittore-demiurgo la patata bollente di inventare i motivi del suo gesto inconsulto, che già nel titolo dichiara la morbosa affezione dell’autore alla tragedia shakespeariana – “un cuore così bianco” è infatti l’espressione che lady Macbeth rivolge al marito, reo d’aver appena ucciso re Duncan – e che, inevitabilmente, intreccia eros e thanatos. Così pure in Domani nella battaglia pensa a me (1994), capolavoro assoluto, il cui titolo evoca Riccardo III e la “scena prima” vede il povero Víctor Francés alle prese con la morte improvvisa dell’amante appena conosciuta. Ancora una volta assistiamo all’evento e all’assenza dell’evento; ciò che accade e ciò che, in virtù dell’accaduto (l’accidente che in entrambi i casi ha nome “morte”) non potrà più accadere, dunque, diventa per definizione meritevole di una chance, una ricostruzione, una qualsivoglia fantasticheria.

Javier Marías alter ego di William Shakespeare? Pare proprio di sì. Del resto, il primo portava sempre con sé un ritratto del secondo: un vezzoso dipinto sulla superficie di una spilla appuntata al bavero della giacca e appartenuta, stando al suo racconto, all’attore Robert Donatt. L’aveva acquistata all’asta, in Inghilterra, terra di un secondo ed evidente “alias” rispetto alla propria terra di origine, la Spagna. Legate a doppio filo, cornici elettive entro cui si stagliano le tragedie umane messe in scena da Marías, Spagna e Inghilterra rappresentano in modo plastico l’universo moribondo delle grandi monarchie in carica, che trascinano la loro pomposa esistenza a colpi di sotterfugi sin troppo evidenti. Macchinazioni che si ripercuotono sull’agire dei singoli cittadini-sudditi-personaggi e nelle atmosfere immediatamente riconoscibili, benché fumose, che recano in calce la firma inconfondibile del nostro madrileno.

Marías- Shakespeare tratteggia lucidamente la consapevolezza dell’Inganno, tra i temi prediletti della sua narrativa assieme all’Amore, perpetrato così finemente da diventare una realtà accettabile, ineluttabile, della quale non si può fare a meno. È quanto accade a Berta Isla, sospesa a vita nel suo stato di ingannevole attesa:

“la fine dell’attesa e dell’incertezza, alle quali ci si è adattati talmente bene che si preferirebbe non uscirne mai […] Adesso ho l’illusione dell’avvenire, alla quale posso dare una forma, l’avvenire si può modellare. […] È un’idea che posso accarezzare finché Tomás non torna, perché so che quando lo farà l’idea svanirà e verrà smentita dall’inerzia degli eventi, dall’abitudine”.

Nel dispiegare i suoi temi universali, Marías esige dal proprio lettore l’esercizio di una certa maturità conoscitiva, questo è indubbio. Se non altro, la finezza necessaria ad apprezzare le incertezze della vita e la discontinuità dei rapporti personali rispetto alla percezione che, talvolta, abbiamo di essi. Al pari, forse, di quelle che lui stesso sperimentava nel suo incedere letterario, ammettendo in diverse interviste di non avere mai imbrigliato il fluire della propria scrittura in nessuna “mappa mentale”, traendo piacere dall’inalienabile diritto alla contraddizione, nella misura in cui la scrittura assomiglia alla vita e viceversa.  

Se ne è andato a settant’anni, Javier Marías, lasciando chissà quanti appunti, ritagli, quaderni scritti fittamente, incipit di vite parallele per le stanze della sua casa-biblioteca strapiena di libri.

“Perdiamo tutto perché tutto rimane, tranne noi. Per questo ogni forma di posterità forse è un oltraggio, e magari lo è anche allora ogni ricordo” si legge in Nera schiena del tempo (1998).

Ci sembra il commiato perfetto, al quale aggiungere soltanto una riflessione che viene dallo scrittore Paolo Di Paolo, anzi, un insegnamento che risiede tutto in “quel modo solo suo di raccontare che ha per certi versi imposto, gentilmente imposto”, al netto delle mode, ribadisce Di Paolo, senza piegarsi al condizionamento della convenienza “È rimasto se stesso, è rimasto Marías. È una gran lezione”.

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