La guerra dei pupi

Esiste uno spazio misterioso nel quale ogni cosa confluisce per sublimare, inclusa la guerra tra gli uomini, che nell’immaginario dei poeti e, prima ancora, in quello altrettanto fervido della cultura popolare, abbandona la prospettiva della Storia per abbracciare quella del Mito. In ogni epoca, ai quattro angoli del mondo, accade che un fatto storico compiuto da uomini e donne in carne e ossa sfugga alla mera cronaca e si proietti nella dimensione imperitura del gesto, assieme a colui o colei che se ne è reso protagonista, che a quel punto cessa di essere persona comune per incarnare i tratti leggendari dell’eroe. Qualcosa di simile è accaduto al re dei Franchi, Carlo Magno, nel lontano 778, quando – non ancora imperatore e certamente ignaro di dare il là a una saga postuma che più saga non si può (1100 circa) – batteva in ritirata sui Pirenei, assalito dalle popolazioni basche presso Roncisvalle. Se per il re quel tentativo di strappare la Marca Arabo-Ispanica all’emiro di Cordova non fu che un tassello nella creazione di un impero che piegherà Bavari, Slavi, Bretoni e Longobardi, nell’immaginario collettivo, dunque in letteratura, i contorni della spedizione si ingigantirono fino a coinvolgere l’intero globo terracqueo, occupando le biblioteche di tutto il mondo.

La Chanson de Roland, dall’omonimo condottiero in quel di Roncisvalle, finisce così per attraversare l’Europa medievale da cima a fondo, al passo belligerante della “guerra santa” che in quel momento il Cristianesimo muoveva all’Islam. Marciando in pompa magna sulle vie dei pellegrini, da Compostela alla Francigena, di qua dalle Alpi il nostro Roland diventa ben presto Orlando. Incontra i giullari veneti, i cantori padani, l’ottava in rima toscana e così via, per finire all’estremo sud della penisola, mescolandosi a qualcosa di unico e certamente inimmaginabile dal vecchio Carlo Magno: l’Opera dei Pupi Siciliani, da poco entrata a pieno titolo tra i Patrimoni Immateriali dell’Unesco.               

Non c’è da meravigliarsi, dunque, se per i vicoli di Ortigia, il nucleo altrettanto leggendario della città di Siracusa, una donna che come me coltiva la passione per la scrittura e le storie d’Oriente si sia lasciata sedurre dal clangore delle spade e degli scudi che saliva da un vicolo, nel quartiere della Giudecca. Al pari di un’Arianna desiderosa di perdersi nel labirinto, ho seguito la chiamata alle armi intonata dall’Olifante, il corno magico, per ritrovarmi ammaliata dinanzi all’ingresso del Museo dei Pupi “Vaccaro-Mauceri”. Là dove un filo sottile, più esile di quelli che muovono gli arti superiori e inferiori dei pupi, intreccia il ciclo carolingio a una tradizione tutta mediterranea, arcaica come l’uomo, che già nell’Antico Egitto vedeva l’impiego di piccole marionette durante i riti sacri. Dal sacro al profano, queste finiscono per approdare in terra magnogreca e a Siracusa, città nella quale Senofonte, nel suo Simposio, colloca il dialogo avvenuto tra un marionettista del posto e il filosofo Socrate, durante un banchetto nella casa del ricco Callia.

“A godere dei piaceri terreni, perché ben diverso sarà il mondo delle ombre”

è, invece, l’invito che una marionetta (neurospasta) rivolge ai commensali di Trimalcione, nel Satyricon di Petronio.

Qui, nel cuore dell’odierna Siracusa, le gesta di Orlando, Rinaldo, Astolfo e Angelica rivivono per mano di due artisti conosciuti in tutto il mondo, Saro e Alfredo Vaccaro, e dei loro eredi, gli attuali “Fratelli Vaccaro-Mauceri”, che con passione e maestria portano avanti la tradizione di un teatro che nulla ha da invidiare a quello delle Tragedie Greche. Dai cantàri ai pupàri il passo è breve: i cantastorie del sud Italia prendono a prestito la Chanson medievale, la versione quattrocentesca dell’Orlando innamorato, a firma Matteo Maria Boiardo, quella ariostea dell’Orlando furioso, le leggende popolari e le superstizioni arabo-sicule e ne fanno un genere inedito, capace ancora oggi di incantare grandi e piccini.

Se all’interno del museo è ricostruita passo passo l’affascinante storia dei Vaccaro – che, a partire dal 1948, ripresero l’eredità della famiglia Puzzo, dando nuova vita ai pupi siracusani – è sul palco del piccolo Teatro dei Pupi, poco distante dalle sale espositive, che va in scena l’opera vera e propria. Un’opera che nasce dalla rivisitazione dei temi epici perseguita da Alfredo e Rosario Vaccaro. Fu quest’ultimo, Saro, ad aprire il primo laboratorio per la costruzione dei pupi, nel quartiere Giudecca. Un tavolaccio sormontato da una mensola sulla quale trovavano posto arti, teste, stanghe di ferro, calchi in gesso, dettagli in cartapesta, pennelli, colori e la stessa armonica confusione che regna ancora oggi nell’angolino appositamente ricostruito per i visitatori. Gli stessi che, come me, vanno in cerca di luoghi in cui tornare bambini. Tra le teste mozzate dai feroci Saraceni e gli scampoli damascati delle pupe maliarde aleggia qualcosa di indefinito, come se ciascuna di quelle marionette inerti fosse in attesa di animarsi con l’alito vitale del Dio Puparo e muoversi sulla scena per il nostro fanciullesco piacere.

Alfredo taglia e cuce le gesta dei paladini francesi a misura dei pupi aretusei, così da elaborare un mini-ciclo cavalleresco locale, caratterizzato da un marchio di fabbrica: l’impronta fantastica che lui stesso si porta addosso sin da picciriddu, dagli spettacoli dei Puzzo. Un percorso parallelo a quello della saga ufficiale, che in cinque episodi sovrappone la tradizione carolingia alla messinscena morale, antropologica e satirica del contesto mediterraneo e siracusano. I soggetti così elaborati da Alfredo Vaccaro diventano veri e propri testi teatrali grazie alla collaborazione dell’autore Sergio Rubino, che sceneggerà i primi tre episodi della saga “made in Vaccaro”. I cartelloni dei Vaccaro riprendono la tradizione dei cantastorie, istruendo a modo loro il popolo strada per strada, piazza per piazza, in un processo di alfabetizzazione che passa per la scena del teatrino. Più poveri di quelli catanesi, questi cartelloni non sono fatti di carta ma di faesite, fissata per il lungo su un telaio di legno e dipinti a tempera, secondo le scene cavalleresche trovate nei libri presi in prestito dalla biblioteca comunale: Orlando in lotta contro un drago, il re Agricane di Tartaria, l’incantesimo di Angelica.   

La primavera del 1984 si porta via Saro. Di lì a poco, Alfredo abbandona per malinconia. Tutto sembra destinato all’oblio quando a un tratto, come nelle migliori epopee cavalleresche, un colpo di scena irrompe a ribaltare la mesta sorte. I pupi non vogliono saperne di starsene immobili, muti, tagliati fuori dalla scena che da sempre li vuole protagonisti. Lo spettacolo a cui io stessa ho avuto il piacere di assistere, assorta nell’atmosfera senza tempo del piccolo teatro, porta la firma di Francesca Vaccaro-Mauceri, figlia di Alfredo e autrice degli ultimi due episodi della saga cavalleresca, ormai diventata a tutti gli effetti la saga stessa di questa famiglia di artisti e artigiani.

Assistere allo spettacolo della storica compagnia significa entrare in una dimensione fiabesca. Il piccolo teatro, gremito del suo pubblico internazionale, mi ha riportata indietro nel tempo, quando, da bambina, durante una vacanza in Sicilia, i miei genitori mi portarono a vedere i pupi per la prima volta e io ne fui terrorizzata. Ebbene, ho avuto di nuovo paura. Esattamente come allora, sussultavo al clamore di quei ferri d’armi impugnati da marionette a grandezza d’uomo, espressive più di tanti attori in carne e ossa nei movimenti ritmati e nel tono squillante delle minacce cavalleresche. Accanto a me, un giovane padre scandinavo col suo bambino, un piccolo vichingo dai capelli d’oro, mi chiedeva di tradurre in inglese, così che a sua volta potesse riportare al figlio, nella lingua d’origine, le formule arcane e universali che tanto hanno viaggiato nel tempo e nello spazio.

Sì, perché come osserva Italo Calvino nella sua bella prefazione al Furioso, “il tempo in cui si svolgono le gesta dei cantàri è un concentrato di tutti i tempi e di tutte le guerre”, incluse quelle odierne, con gli eterni pupari a muoverne i fili.

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