La dirompente sensualità delle poetesse arabo-andaluse

Cordova (Spagna), anno Mille. Percorriamo a passo lento i vicoli lastricati della città vecchia, assaliti dall’intensità di tutto ciò che ci circonda. Il vociare acuto dei mercanti che all’ora della preghiera si confonde con l’onda sonora dell’adhān, il richiamo islamico rimpallato da un minareto all’altro a partire dalla torre della grande della moschea (oggi cattedrale dell’Immacolata Concezione); l’odore delle spezie, delle carni, delle erbe officinali e dei petali essiccati; i suoni operosi degli artigiani nelle botteghe e ogni altro stimolo capace di perturbare i sensi nel bel mezzo di questo suq d’Europa.

Siamo al centro della fiorente al-Andalus, odierna Andalusia, regno illuminato. Sorto per mano della dinastia damascena degli Omayyadi (711-1031), capaci di estendere il proprio controllo fino alla penisola iberica, il califfato di Cordova segnò uno dei momenti più alti e raffinati della storia del Mediterraneo, dando lustro alla prima enclave occidentale della cultura arabo-musulmana. Patria di avanguardie artistiche e filosofiche, stili architettonici, letterari e musicali, la Spagna islamica vide nascere alcune tra le figure di intellettuali più eccelse dell’epoca, da Averroè a Maimonide passando per i nomi di alcuni grandi poeti arabi. Poeti e… poetesse.

Queste ultime, certamente meno note dei colleghi, vedono nella dirompente personalità di Wallada Bint al-Mustafki (Cordova, 1001 – 1091), l’esponente più esuberante di una poetica dai toni emancipati e libertini. “Colei che dà alla luce”, come suggerisce il significato del nome, era figlia del califfo Muhammad III. Per natura anticonformista e provocatrice, decise di investire gran parte della sua eredità nell’istruzione scolastica di donne meno abbienti oltre che di pari rango. Bella, colta e intraprendente, Wallada consegna ai propri versi il compito di perpetuare un’immagine di donna e artista totalmente emancipata. Accostandoci agli ambienti del grande palazzo reale, al-Zahira (la Città Splendente), tra la frescura dei giardini e dei porticati in penombra, l’avremmo spiata nella trasparenza maliziosa delle vesti, quelle con le quali la immaginò nell’Ottocento il pittore spagnolo Francisco Masriera i Manovens e che lei stessa utilizzava come strumento di comunicazione oltre che di seduzione. Noto è che fece ricamare i suoi versi più celebri con un filo d’oro sulle maniche di una tunica:

“Sono stata creata da Dio per la sua gloria,/ma cammino orgogliosa per la mia strada” (a sinistra); “Sulla mia guancia comandi pure l’amante,/i baci li offro a chiunque li desideri” (a destra).

La sua vita è un romanzo avvincente, a tratti epico. La madre, donna dell’harem impazzita di gelosia, si consumò nel vano tentativo di riconquistare il re. Costui, a seguito di una rivolta, cercò rifugio in quello stesso harem travestendosi da donna, ma fu riconosciuto alla frontiera e ucciso da un ex ufficiale. L’onta del disonore colpì la giovane erede, che forse per rivalsa imboccò la via dell’indipendenza e del libertinismo.

Wallada è al contempo un’amante insaziabile, che si strugge di passione e gelosia per il proprio uomo:

“Ci rincontreremo mai/dopo questa separazione?/[…] Le notti sono eterne,/questo distacco non ha fine e/la pazienza non è capace/d’allentare la morsa del non sapere”.

ma anche una donna indipendente e padrona di sé, che ogni venerdì anima in prima persona il salotto letterario che ospita a corte.

Un cenacolo che vede tra i suoi accoliti i più importanti pensatori, artisti e letterati del Mediterraneo, donne in primis. Un gineceo di adepte al centro del quale la “Saffo andalusa”, indossa panni maschili e istruisce allieve di altrettanta spregiudicatezza – Muhya, al-Sumasyir e Bint al-Tayyani tra le più note – delle quali non di rado si invaghisce e in compagnia delle quali dà vita a una vera e propria scuola poetica andalusa al femminile. Di queste poetesse, allieve e concubine di Wallada, restano piccole raccolte e frammenti di recente traduzione che tuttavia concorrono a definire bene un universo linguistico che ricorrere alla satira violenta quanto all’immaginario amoroso.

Tra le contemporanee, Nazhum Bint al-Quilai, originaria di Granada, si definì femminista ante litteram, rivendicando la potenza della propria opera al pari di quella maschile. La Valle di Guadix è invece il canzoniere più celebre dopo quello di Wallada, a firma Hamda Bint Ziyad al-Mu’abbid (Guadix, 970 – 1030). Meglio nota come Hamduna, famosa per il suo lesbismoe la condotta scandalosa, è ricordata dallo studioso Ibn Said come “la più grande poetessa di tutto il mondo arabo”. Bella la descrizione della valle del fiume Gaudix, che riporto integralmente per godere insieme ai lettori il gusto di queste antiche voci femminili sconosciute a più:

“Ci protesse da venti torridi/la frescura di una valle,/irrorata da abbondanti e frequenti piogge./Rifugiati nel seno della boscaglia/ci accolse con affetto, come una nutrice/china su un lattante./E ci diede da bere, assetati come eravamo,/acqua cristallina, più sostanziosa del vino,/per un vero intenditore./Fa schermo al sole dal lato frontale,/occultandolo, e permette così l’entrata/solo alla brezza./I suoi ciottoli sono in grado di spaventare/una donzella ingioiellata che soppesa le perle/della sua collana come fossero un’armatura”.

Di origini berbere, direttamente legata alla componente marocchina di al-Andalus, fu invece la poetessa Umm al-Al Bint Yussuf al-Hiyyariyya al-Barbariyya, come si evince dal nome gentilizio (al-Barbariyya), a dimostrazione di come la componente berbera in epoca omayyade fosse ben presente nella regione di Guadalajara. Benché di numero esiguo, i suoi componimenti spaziano dall’aneddotica agli epigrammi e si fanno specchio della fluidità e della padronanza di generi, temi e forme nelle quali queste precorritrici dei tempi seppero cimentarsi.

Donne ammaliatrici e poetesse raffinate che non disdegnavano le schermaglie in punta di penna. Nel dare il cattivo esempio, l’indomita maestra era solita ferire in versi i traditori prima ancora che punirli per via di legge. Ne sono un esempio le parole indirizzate al poeta amante Ibn Zaydun, invaghitosi di una schiava prima d’essere esiliato:

“[…] Sai bene che sono/Luna piena in cielo,/tuttavia, per mia sventura,/ti sei innamorato di Giove, la disgrazia”.

Donne portatrici di un fermento artistico e, talvolta, un ascendente politico pari a quello degli omologhi maschili, a conferma di un’epoca d’avanguardia entro la quale il Mediterraneo espresse la propria identità cosmopolita ai massimi livelli.

Musulmani, ebrei, cristiani, berberi, slavi, animisti – donne e uomini – immersi in una convivenza che definiva esplicitamente i primi tre, monoteisti, “Fratelli del Libro” (Corano, Sura 29), e gli altri parte integrante di una koinè culturale di ampio respiro e costumi emancipati. Tra costoro, Wallada Bint al-Mustafki splende quale figura di assoluta modernità, che con la propria biografia e un uso seducente del verso smentisce ogni stereotipo costruito dall’odierno Occidente attorno alla donna musulmana, succube in quanto tale.

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