Kafka, cento anni di castelli in aria

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Nessuna delle opzioni ti soddisfa? Torna al punto di partenza, mettiti comodo, solleva il risvolto di un oggetto (possibilmente) cartaceo a forma di parallelepipedo (dimensioni 25×20 cm circa) con su scritto Il Castello (Franz Kafka, 1926) e… leggi.

“Il Castello ha molti ingressi. Ora è in voga l’uno, e tutti passano di lì, ora l’altro, e il primo è disertato. Secondo quali regole avvengano questi cambiamenti non s’è ancora potuto scoprire”.

Di questo ci informa la solerte Olga, nel tentativo di aiutarci, come fa col signor K., l’agrimensore.

Anche lui, come alcuni di noi, non si capacita delle dinamiche che lo hanno costretto in una situazione tanto paradossale. Una condizione a tratti comica, se non fosse tragica, in virtù della quale oltrepassare la soglia di accesso al “Castello” e avere udienza con uno dei suoi funzionari più importanti, il Capo della X° Sezione, l’intendente Klamm, è a dir poco un’impresa.       

Cento anni fa (3 Giugno 1924, Kierling), mentre Franz Kafka se ne andava, pochi potevano immaginare che la sua letteratura visionaria stesse consegnando ai posteri la cosmogonia esatta del mondo attuale. Lo stesso che oggi non stentiamo a definire “kafkiano”.

Tra le opere dello scrittore di Praga, Il Castello, romanzo postumo, è quella che più di tutte rappresenta l’iper-burocratizzazione quale massima espressione dell’alienazione della società. Se La metamorfosi ci introduce al mondo sub-umano di chi è estraneo alle regole del suo stesso nucleo familiare, Il Castello spinge il paradosso dell’estraneità al limite delle convenzioni sociali, rapportandosi alla schizofrenia dell’individuo vittima dei suoi stessi meccanismi di ordinamento e, per certi aspetti, di “sostituzione” dell’inumano all’umano.   

Reiner Stach, il maggiore biografo di Kafka, ci fa riflettere sull’universalità dell’opera al di là del mero riferimento ai totalitarismi ravvisati dai lettori di prima generazione, espandendo in maniera atemporale e trasversale la “profezia” di un mondo a tinte inquietanti, abitato da individui ridotti allo stato larvale, costantemente spiati, privati dell’intimità, inquisiti, sorvegliati, rimpallati da un’autorità all’altra senza alcuna via d’uscita.

Niente di più irreale fu così reale del mondo immaginato dal giovane Kafka! Chi di noi non sente di aver percorso almeno un tratto della stessa strada innevata, difficilmente praticabile, che l’agrimensore K. si ostina a battere fino all’imprendibile Castello? 

Continuò dunque il cammino, ma era un cammino assai lungo. La strada infatti, cioè la strada principale del paese, non conduceva alla collina del Castello, ma soltanto nelle vicinanze; poi, come deliberatamente, descriveva una curva e sebbene non si allontanasse dal Castello non gli si avvicinava neppure.

Tutto è scivoloso sulla strada di neve. Il tempo è regolato da leggi imperscrutabili, che sfuggono alla comune percezione e sembrano rispondere a quelle di un incubo senza fine. Una notte eterna e anarchica che scende velocemente sui destini degli uomini e sulla “Locanda del Ponte”, assai simile a quella dove alloggia il pittore Strauch, protagonista di Gelo (Thomas Bernhard, 1963).

“Ma io non posso andarmene, sono venuto qui per restarci e ci resterò […]. Cosa avrebbe potuto attrarmi in un paese desolato come questo se non il desiderio di rimanerci?”.

Anche noi, come K., veniamo costantemente assaliti dal dubbio. Siamo giunti ai piedi del Castello di nostra spontanea volontà o siamo stati condotti, deportati, convocati? Anche noi abbiamo, a volte, la sensazione di abitare un paese straniero, del quale ignoriamo tutto: leggi, convenzioni, diritti e i doveri. Un luogo che si autoregola in modo incomprensibile e spaventoso, lasciandoci indietro di qualche passo.

Del resto, come ci ricorda la locandiera del Ponte nonché vecchia amante del funzionario Klamm, noi non siamo “né del Castello né del villaggio”. Non siamo niente.

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