Tratto dalla raccolta di racconti ispirati a fatti reali
La scatola dei ricordi (Formebrevi Edizioni, 2019)
Ripubblicato online in forma di “feuilleton” su Il Vizzarro, nella rubrica letteraria La voce narrante.
Dalla vetta del Monte Poro lo sguardo spazia su un orizzonte infinito, dove l’azzurro del cielo si immerge nel mare e sfuma lontano fino a lambire lo Stretto, disegnando il contorno nitido di sua maestà lo Stromboli. Di giorno il vulcano fuma come un dannato, cospargendo a tutti il capo di cenere se il vento soffia da nord-ovest; di notte, quando il suo ventre ribolle ‘ncazzùsu, di quella rabbia calda e gorgogliante che solo chi vive in certi posti può sapere, le colate di lava baluginano sul velluto nero della Sciara del Fuoco e si portano appresso tutto ciò che ha deciso di risalire dal profondo della terra per annegare in mare.
Da piccolo, guadagnata la vetta del monte, mi arrampicavo sull’albero più alto e in sella a quel trono di corteccia governavo i miei sudditi, una ventina di pecore e un pastore maremmano, e dominavo i territori immaginari sotto la mia giurisdizione: dalle pendici della montagna alla frazione di Caroniti e alle quattro mura di casa mia, scendendo in picchiata fino alle bianche scogliere di Capo Vaticano. Un regno che da lassù sembrava il giardino dell’Eden tanto era seducente la promessa di quel verde che degradava di intensità dalle abetaie ai fichi d’India, passando per la sfumatura acida del finocchio selvatico, e dispensava frutti che scoppiavano al sole e lacrimavano melassa. Non fosse altro che appena sceso dal ramo, cambiata prospettiva, le pecore tornavano a essere pecore, la strada una selva di pericoli e i volti incrociati maschere arcane, di poche parole, simili a quelle di terracotta sulle facciate delle case a scongiurare il malocchio.
– Vui ‘nchianàti?
– Vui scindìti?
Una sillaba di troppo avrebbe avuto il suono sgradevole dell’invadenza, come se di certe cose si potesse davvero chiacchierare così, a cuor leggero, in mezzo a un sentiero di montagna con chissà quali orecchie in ascolto tra le felci e il lentisco.
Dopo aver sistemato il gregge per la notte rientravo in casa e aiutavo mia madre nelle faccende, benché alcune avrebbero richiesto la forza fisica di un uomo – magari di colui che ci aveva lasciati con la promessa di un’America per tutti, salvo poi trovarla per sé e la sua nuova famiglia – e altre, come la cagliata, la perizia certosina di chi esegue gli stessi gesti da una vita, in un cerimoniale che non può subire variazioni.
A tarda sera gli occhi si abbandonavano a un sonno pesante e senza sogni, eccetto che in estate, quando la branda condivisa con Cenzina – secondogenita dopo di me, ma regina indiscussa del quintetto di sorelle – diventava striminzita e zuppa di sudore. Allora non restava che andarsene a zonzo sotto la luna.
Una notte capitò un fatto inquietante, che a pensarci mi fa ancora rabbrividire.
Era un brutto periodo, mio padre era partito da poco e il senso di abbandono unito alla prematura consapevolezza d’essere l’unico uomo di casa mi rendevano particolarmente irrequieto. Bastava niente a farmi imprecare come un rinnegato: una parola sussurrata di spalle, un’occhiata obliqua tra i vicoli ed ecco che partivano scintille. In più di un’occasione ero arrivato alle mani col gradasso di turno. La ràggia che mi gonfiava le vene del collo e le mani bambine, già nodose di calli, mi faceva avere la meglio anche su bestioni grandi e grossi più di me, tranne che in un caso, sostanziale discrimine tra “me” e “loro”. Quando l’avversario si sfiorava la cintola o avvicinava la mano al bordo della scarpa. Quel gesto era un codice preciso, significava una cosa sola: “t’ammàzzu comu nu cani!”. Nessuno esplicitava la minaccia, non ce n’era bisogno. Era sottesa nel movimento che cercava l’arma, rivoltella o Coltello del Frate che fosse.
Io, addosso, portavo solo la fionda che mi serviva per abbattere le beccacce e mettere assieme una cena di carne. Però ci stavo pensando, e il solo pensarci mi rendeva cchiù pàcciu e smaniùsu del solito, perché la verità era che un’arma non volevo possederla. Non mi sembrava da cristiani, e non perché fossi un bravo chierichetto che serviva messa – anzi, avevo già inteso che il vecchio parroco che una volta mi aveva negato un passaggio in macchina, uno dei pochi ad averla in paese, perché “puzzavo di pecora” altro non era che l’ennesimo nemico mascherato – ma proprio perché l’idea di affidare a una semiautomatica i malumori dei poveracci come me mi sembrava una follia. Il modo più rapido per decimare l’intera regione. Eppure, dalle mie parti, nel promontorio paradisiaco di orti e fiori a picco sul blu, le questioni si risolvevano a quel modo.
Tornando al fatto di quella notte, anziché sperdermi per le vie del paese come facevo di solito, imboccai il sentiero che sale al monte con la testa affollata di pensieri che odoravano di polvere da sparo. La luna piena illuminava la via e le lampare componevano la loro costellazione sulla superficie del mare. Camminavo a piccoli passi, mani in tasca, e per svagarmi contavo le palline di cacca arruocciuliàta che le greggi avevano depositato al loro passaggio, punteggiando il cammino di tracce utili a ritrovare il pascolo, un po’ come le briciole per Pollicino. Il pensiero mi fece sorridere e quasi non mi accorsi del passaggio fulmineo di qualcuno, qualcosa, alle mie spalle, che subito si dileguò nella vegetazione lasciandosi dietro solo un lieve fruscio.
Una perturbazione dei sensi, nulla più. Non era la prima volta che mi aggiravo nel bosco in piena notte. Ero abituato agli incontri ravvicinati con le bestie che lo popolano e i versi ancestrali che talvolta emettono, tuttavia, un brivido mi attraversò da capo a piedi costringendomi a svuotare la vescica contro un grosso faggio. Fu lì, mentre battezzavo la pianta, che vidi la sagoma di un uomo prendere forma nel buio. Un uomo, sì. Di statura imponente, con indosso un cappello e una manta d’altri tempi, simili a quelli dei briganti; barba lunga, appuntita, e una carabina a tracolla ostentata con orgoglio.
– La vorresti anche tu una così, di’ la verità! Rispondi, non ti spagnàri!
– Che ci dovrei fare con quella? Sono un pastore, vendo ricotte.
Una risata cavernosa riecheggiò tutto attorno agitando ogni singolo ramo e facendo mormorare le foglie una a una come scosse da un vento improvviso, benché l’aria fosse immobile. Quando abbassai lo sguardo riconobbi chiaramente due zampe caprine, tornite di zoccoli, sotto la cappa che avvolgeva lo sconosciuto. Feci un balzo indietro e persi l’equilibrio, forse battendo la testa, non ricordo. Mi rialzai intontito e la creatura non c’era più, riassorbita dalla notte che l’aveva generata.
Non l’ho mai raccontato a nessuno, ma ancora oggi rivivo l’angoscia di allora e scorro ogni dettaglio con vivido realismo, non come il frutto dell’immaginazione di un ragazzo suggestionabile. Dopo l’apparizione gli eventi presero un’altra piega.
L’indomani mi sentivo spossato, avevo dormito poco e per la paura l’avevo fatto su una panca, vestito di tutto punto. Le bestie sembravano intuirlo e si prendevano gioco di me costringendomi a inseguirle per i prati come un ossesso. Arrivai alla baracca di ‘mpari Pinu stremato e assetato. Il vecchio mi allungò una boccia d’acqua che mandai giù d’un fiato, avvertendo solo alla fine il tanfo putrido che mi impastava la bocca.
Qualche ora dopo, con la febbre alta e le budella che sbraitavano come lo Stromboli, realizzai che quel balordo mi aveva dato da bere la stessa acqua delle pecore.
Riaprii gli occhi in una corsia d’ospedale, o almeno in quella che nella mia immaginazione poteva assomigliarci, dal momento che non ne avevo mai vista una.
– Ben tornato tra i vivi, ragazzo! Grazie a Dio ce l’hai fatta, abbiamo pregato tanto per te.
– Chi siete? Dove mi trovo?
– Sono suor Diletta e questo è il reparto infettivo dell’Ospedale Civile di Catanzaro. Sei stato in coma per qualche giorno, temevamo il peggio.
La mia testa era completamente vuota, non avevo idea di cosa fosse successo né di come avessi fatto ad arrivare niente meno che a Catanzaro, città irraggiungibile per chi non disponeva di una vettura e una buona dose di pazienza da spendere per un giorno intero tra i tornanti borbonici.
Suor Diletta disse che mi ero preso una malattia dal nome sportivo, il tifo, che a differenza di quello calcistico poteva far scoppiare le membrane del cervello e dell’addome, ma che ormai non avevo di che preoccuparmi perché ero in buone mani. Mi cambiò la benda secca sulla fronte con una umida e girò i tacchi in direzione della branda successiva, dove un ragazzo rachitico era letteralmente inghiottito dalle pieghe del lenzuolo. Quando sollevai il mio rimasi scioccato: ero coperto di chiazze tonde e rosa che scomparivano a una leggera pressione per riapparire qualche istante, dopo più accese che mai. Tuttavia, riconobbi la mia fortuna se era vero, come sosteneva la monaca, che ero vivo per miracolo.
Dopo una settimana stavo in piedi sulle mie gambe, benché ostaggio di repentine imboscate intestinali, e andavo su e giù per la corsia con la promessa di non allontanarmi dal reparto per nessuna ragione. Ero ancora infettivo, come gli altri due sciagurati coi quali condividevo l’isolamento: un ragazzo più piccolo, delle parti di San Floro, e un giovanotto che aveva rimediato il batterio sotto la naia e non aveva trovato posto all’ospedale militare.
Ero ancora infettivo la volta in cui venne a trovarmi mia madre.
La poveretta aveva abbandonato le bambine al loro destino e approfittato di un passaggio di andata e ritorno in giornata. Di quel pomeriggio mi resta solo una memoria gustativa. Un boccone dalla consistenza molliccia, che sciogliendosi lascia dietro di sé la dolcezza di un pasticcino. La prima volta che assaggiavo una banana in vita mia.
L’infermiera aveva acconsentito e mia madre l’aveva sbucciata gongolando, come chi si appresta a porgere un dono prezioso. Che strani frutti erano maturati in mia assenza. Chissà se le gialle semilune spuntavano fuori dalla terra o penzolavano dai rami degli alberi; se crescevano giù in marina o in cima al monte. Mi chiedevo questo mentre la guardavo allontanarsi lungo il corridoio. Divagavo per farmi forza, provando a trattenere le lacrime e l’istinto di correrle dietro come un bambino. Come il bambino che di fatto ero ancora, almeno nei momenti in cui dimenticavo di fare l’adulto, l’uomo di casa che stava meditando di farsi un’arma come quella di Belzebù.
Già, che fine aveva fatto il caprone di quella notte? Più ci pensavo e più mi persuadevo che era tutta opera sua. Uno strano avvertimento.
I giorni scorrevano lenti e una settimana seguiva l’altra senza che nessuno, eccetto suor Diletta, si curasse davvero di me. Osservavo gli altri pazienti arrivare in barella, guarire e tornarsene a casa; li spiavo chiacchierare coi familiari e guardavo con un pizzico di invidia i coetanei scartare un pacchetto portato in dono dal papà, mentre io tenevo stretto il ricordo di un sapore nuovo gustato in un tempo già lontano, sbiadito come un sogno. La mano di suor Diletta era la sola ad accarezzarmi il viso e condurmi, di tanto in tanto, al cospetto della Madonna di Lourdes, al centro della piccola cappella ospedaliera. In ginocchio, nella penombra, chiedevo perdono per i cattivi pensieri che mi avevano attraversato la mente e imploravo la madre di Dio di condurmi dalla mia, o in qualsiasi altro posto fuori di là.
Quando le analisi decretarono che non c’era più traccia della maledetta salmonella che mi si era aggrappata alla bocca dello stomaco, il primario diede ordine di spostarmi in un altro reparto. Fu allora che si aprì un mondo. I confini della stanza si dilatarono in una dimensione tutta da esplorare e l’ospedale divenne il regno incontrastato della mia curiosità selvatica. Dal sottotetto agli scantinati, dalle cucine alla lavanderia, non c’era angolo che trascurassi. All’inizio mi muovevo in solitudine, furtivo, per paura d’essere beccato; poi, col passare del tempo, altri piccoli degenti si unirono alle mie perlustrazioni, mettendo su una vera e propria combriccola. Scoprii così che anche un luogo apparentemente infausto come un ospedale vive di vita propria e racchiude in sé un universo di storie e destini che si intrecciano. Tra quelle mura c’erano vite che nascevano e si spegnevano, dolori e gioie, amori che si consumavano di nascosto e amicizie che si allacciavano da un letto all’altro per condividere insieme un pezzo del viaggio.
E poi c’erano loro, le Sorelle della Carità, per le quali ero diventato una vera e propria mascotte. Giovani e vecchie suor dilette dedite al conforto, intente a coccolarmi come fossi un orfanello nelle mani del Signore, ruolo nel quale mi ero calato alla perfezione date le circostanze. Ero convinto che nessuno sarebbe tornato a prendermi, mi stavo abituando all’idea che avrei vissuto per sempre in quell’ospedale. Evitavo di pensare a casa, alle mie sorelle gargiùte che battibeccavano come galline; alle pecore da accudire, al cane, ai boschi e persino alle ripide corse a picco sul mare che mi facevano sentire un re. Avevo perso il conto delle settimane, che nel frattempo erano diventate mesi, da quell’unica visita di mia madre. Non ce l’avevo con lei, ero abbastanza smaliziato da capire che quando si è soli a combattere contro la vita non è facile tenere insieme le fila di tutto.
Così la primavera, che mi aveva giocato quel brutto tiro nel fiorire dei pascoli, cedeva il passo all’estate. I corridoi cominciavano a diventare fornaci assolate e dai finestroni spalancati entravano profumi nuovi; il personale e i degenti vestivano mezze maniche e camici leggeri; io indossavo le canottiere e i mutandoni fuori misura che arrivavano coi pacchi della beneficienza. Mi sentivo a tutti gli effetti figlio adottivo dell’ospedale, almeno finché non mi capitò di ascoltare una conversazione tra il primario e suor Diletta.
– Il piccolo Domenico è ormai perfettamente guarito, converrete con me che è giunto il momento che lo Stato provveda a lui diversamente.
– Professore, vi chiedo ancora un po’ di tempo. Sono certa che la madre lo riprenderà con sé. Proveremo a rintracciarla.
– Sono settimane che sento questo ritornello, non è più possibile rimandare. Siamo ai limiti della legalità, lo capite anche voi.
– Teniamolo fino al Corpus Domini. Il bambino ha diritto al sacramento della prima comunione, poi lo rimetteremo al volere di Dio.
Il negoziato ebbe successo, mi inclusero in un gruppo di catechesi tra tonsille da operare e arti ingessati. Feci buon viso a cattivo gioco, ché se recitare una litania in più e confessare al cappellano qualche marachella mi avrebbe assicurato un tetto sulla testa e un pasto caldo ancora per qualche settimana ne sarebbe valsa la pena. Il giorno della comunione mi vestirono con una tunica bianca lunga fino ai piedi, stretta in vita da un cordone. Suor Diletta mi allacciò un crocefisso al collo e mi baciò sulla fronte, con gli occhi lucidi per la commozione. La cerimonia si svolse nella cappella, che le mamme si erano preoccupate per tempo di abbellire con fiori e ceri all’inverosimile, ottenendo una scenografia più cimiteriale che festosa e un effetto asfissia che tra pollini, incenso e cera sciolta scatenò una sequenza inarrestabile di starnuti. Come gli altri ragazzi non capivo fino in fondo il significato del disco traslucido che mi si era attaccato tenacemente al palato, né l’emozione sui volti degli adulti intervenuti per noi in quel giorno, ma alla fine anch’io fui colto dal magone. Osservavo da lontano i bambini che venivano sommersi di auguri, regali, baci sulle guance e pensavo che mia madre non ci aveva mai abituati a quei gesti. Ancora una volta, però, non gliene feci una colpa. Erano tempi in cui l’affetto si misurava in otri, sporte, cuppi e altre unità di capienza del cibo, ovvero nella capacità di sfamare i propri figli.
Consumato anche il corpo di Cristo, non restava che fare fagotto.
– Micuzzo, ascolta con attenzione. Sei guarito da un pezzo grazie a Dio. Sappiamo anche che te ne vai in giro per i reparti a buttar l’occhio dove non dovresti e combinarne sempre una. Se n’è accorto anche il primario e sta meditando di mandarti in istituto per un po’, finché la tua mamma non si farà viva. Capisci che non puoi più restare qui, vero?
– Non ci vado in istituto. Piuttosto dormo sotto quel ponte nuovo nuovo di cui parlano tutti da quando sono qui. Dicono che è il più grande del mondo, ci sarà un riparo per me là sotto. Oppure me la faccio a piedi. Me ne torno a Caroniti culli gambi mie, ché il coraggio non mi manca, giuro su Dio!
– Non spergiurare ché hai appena ricevuto i sacramenti, benedetto figliolo! L’Istituto Rossi è un luogo di tutto rispetto, dove un ragazzo sveglio come te potrebbe trovare la sua via. Studiare, imparare un mestiere.
– Ce l’ho già un mestiere, sono un venditore di ricotte.
Suor Diletta si sciolse in un sorriso di tenerezza e mi sussurrò all’orecchio il suo piano segreto, che consisteva nel trasformarmi in un piccolo latitante all’interno dell’edificio fino a quando lei stessa, o qualcuna delle consorelle, non avesse trovato una persona di fiducia disposta a riportarmi a casa. Da quel momento i miei spazi tornarono a essere quelli di un carcerato. Mi arrangiarono una barella in un polveroso magazzino all’ultimo piano, dove nessuno entrava da anni; i pasti me li portava la suora di turno o qualche inserviente compiacente. Finalmente, dopo giorni di attesa, quando persino la fantasia fu stufa di trasportarmi in luoghi lontani, suor Diletta arrivò con la bella notizia: un paziente delle mie parti, tale ‘Ntoni u Spiertu, era in via di dimissioni e si rendeva disponibile a portarmi con sé fino a Joppolo, da lì avrei proseguito a piedi.
Prima di salire a bordo della Lancia Appia salutai una per una le mamme adottive che mi avevano resuscitato e accudito, riservando l’ultimo abbraccio a lei, che forse un figlio come me lo avrebbe cresciuto come si deve se il destino le avesse dato facoltà di scelta.
A me la stava dando nel viaggio di ritorno, durante la chiacchierata in cui appurai la fondatezza del soprannome del mio accompagnatore. Non si poteva affermare il contrario di uno che era emigrato all’Altitalia e nel giro di pochi mesi, senza possedere doti particolari, si era aggiudicato un salario tondo di 60.000 Lire.
– Senti a me, vattene da questa terra amara. Ché qua i conti sono capaci a regolarli solo a pallettoni anziché farli quadrare a fine mese. Tua madre è una brava donna, una lavoratrice, la conosco. Al Nord campate tutti.
Così finisce, o comincia a seconda di come la si vede, la storia di un venditore di ricotte nella Calabria più Calabria che si possa immaginare, all’inizio degli anni ‘60.
Le volte in cui la racconto, troppe forse, i miei nipotini ridacchiano prestandovi orecchio distratto, con lo sguardo e il pollice a scorrere rapidamente lo smartphone.
Cinquant’anni come cinque secoli. Troppo distanti da loro quei fatti al limite del verosimile, troppo diversa e agiata la loro vita da riuscire vagamente a comprendere di cosa parlo. E allora va a finire che questa storia la racconto a me stesso, perché come diceva il buon Rino Gaetano “Sì, devo dirlo, ma a chi? Se mai qualcuno capirà sarà senz’altro un altro come me”.