Il senso dei luoghi e come narrarlo

Un paese ci vuole – direbbe Cesare Pavese dal suo privilegiato punto di osservazione in collina, tra la luce della luna e quella dei falò o, più ancora, dall’esilio di Brancaleone Calabro, dove si rapprende il sentimento della melanconia – “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.  

Forse è proprio questo lo spazio fisico e spirituale che l’antropologo calabrese Vito Teti reca tra le pieghe del Sé. Teti è nato, cresciuto, scappato e tornato a San Nicola da Crissa, nel Vibonese, luogo paradigmatico di assoluzione e condanna.

Croce e delizia, esplosione e implosione di quelle “schegge di ultimità”, parafrasando una delle sue più felici creazioni espressive, che si disperdono nell’universo quando un’epoca tramonta e la successiva ne tradisce la memoria. Memoria è metafisica dell’oblio. Attorno a essa ruotano interrogativi identitari, studi, opere, paranoie e visioni di chi viaggia restando fermo e di chi resta viaggiando, proprio come il nostro antropologo sente di aver fatto per una vita intera.      

La straordinaria riflessione sul “senso dei luoghi” e delle comunità, dunque di se stessi, attinge a piene mani alla poetica alvariana della quale Teti è fine conoscitore, nel cui solco procedono i narratori autentici di Calabria, che hanno tessuto la voce di paesi, marine, fiumare, montagne e scampoli d’abbandono come la trama di un canto disperso nel grecale.

La Calabria di Corrado Alvaro prima e Vito Teti poi, ha la forma geografica della fuga – ancora una volta da sé e dalla casa del padre, come leggiamo in Un treno nel Sud (C. Alvaro, 1958) – e i contorni labili di uno stato d’animo.

È la terra che su tutte, proprio in virtù di finis terrae e sorgente tellurica, come spesso mi piace scrivere, assurge a metafora di inquietudine universale. 

Così muta il fuoco di chi guarda la propria terra da lontano per poi riavvicinarsi; proprio come accadde ad Alvaro su quel treno di ritorno al Sud, oltre il finestrino del quale aveva creduto di cogliere:

“La Calabria nel suo momento di mutamento. In pochi anni sono sorti miracolosamente ponti e strade che formavano l’aspirazione di secoli, il mondo nuovo pulsa col suo motore nel più piccolo villaggio. Già qualcuno pensa a un museo di curiosità popolare, che è l’archeologia dei luoghi. Di qui a cinquant’anni, se ai moti esteriori della civiltà risponderanno quelli interiori, la Calabria sarà una regione totalmente cambiata”.

Ai posteri il disincanto di ammettere che, dopo oltre cinquant’anni, quei moti interiori non hanno corrisposto all’aspettativa dello scrittore di San Luca; almeno non in maniera sostanziale.

Eppure oggi, quella che amo definire “generazione elastica”, della quale mi sento parte, si affaccia all’orizzonte con vivace consapevolezza. È la generazione che apprende fuori e mette a frutto in casa, che esplora nuovi linguaggi narrativi per dire l’eterno, che dal passato trae linfa per alimentare una nuova etica del futuro e, per dirla ancora con Teti, della “restanza”.

A Vito Teti e al mondo caro di cui è interprete, questa generazione ha voluto rendere omaggio con opere come il docufilm Il paese interiore, di Luca Calvetta, con la fotografia e il montaggio di Massimiliano Curcio e con la voce narrante di Ascanio Celestini. Un monologo interiore fatto di luoghi, immagini e rituali precisi. Un’opera d’arte nel senso più puro del termine, l’unico possibile, che ne implica la gratuità.

Sì, perché a fronte di tante e troppe speculazioni perpetrate sulla pelle dei calabresi, col solo risultato di alimentare falsi stereotipi, questa narrazione delicata è frutto di un lavoro volontario, ispirato e a costo zero, fino alla scelta estrema ma condivisibile di renderne gratuita anche la fruizione.

Un’eredità coltivata e raccolta, un passaggio di testimone che fa ben sperare, perché a volte l’arte arriva là dove la politica fallisce e sulle macerie di “quel che resta”, di ciò che sembrava irrimediabilmente perduto, fiorisce la consapevolezza di chi siamo davvero.

Ne parlo anche su Glicine Rivista.

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