Per “evitare ogni forma di polemica, in quanto momento di forte tensione”, così una prestigiosa università motiva la cancellazione del seminario che un noto russista avrebbe dovuto tenere sulla figura e le opere di Fëdor Dostoevskij. La notizia, come ben saprete, non è contemporanea all’autore in oggetto. Non risale alla seconda metà dell’Ottocento, né è da imputare alle cesoie dei totalitarismi del “Secolo breve”, per quanto l’impressione di questi giorni è di esserci ripiombati dentro con tutte le scarpe, anzi, con gli scarponi da guerra. La censura – non trovo altro termine per definirla – è notizia dell’altro ieri. La prestigiosa università che la esercita è La Bicocca di Milano; la vittima russista, lo scrittore Paolo Nori, la cui ferita per l’accaduto Sanguina ancora, è il caso di dire, richiamando il titolo del romanzo biografico, Premio Campiello 2021, che ha inteso dedicare allo “scrittore del sottosuolo” (Mondadori, 2021).
C’è una bruciante linea rossa che separa il sangue catartico, evocato da Paolo Nori, da quello mortifero che in queste ore scorre lungo il confine tra Russia e Ucraina. Una linea troppo sottile per essere colta dalla miopia dell’establishment accademico di questo Paese, ormai disavvezzo a produrre dibattito, pensiero critico, disallineamento culturale. Il sangue di cui parla Nori è quello dei vivi, che prese a pulsargli in corpo nel momento in cui, appena quindicenne, si accinse alle pagine di Delitto e castigo interrogandosi per la prima volta su sé stesso: “Mi ricordo che mi chiedevo nella testa, E io? Quanto valgo? Sono come un insetto o sono come Napoleone?”.
Questo banale interrogativo racchiude il senso più intimo e vero della letteratura, in ogni tempo e a ogni latitudine. Il senso per il quale si scrive e si legge, anche a costo della propria vita. Ce lo insegnano per primi i maestri russi, a partire dall’autore di questo scandalo nello scandalo. Il povero Dostoevskij stavolta non ha colpe, anzi, sembra quasi trovare un pretesto per riscattarsi dall’accusa di essere “il più europeo degli scrittori russi”, mossagli postuma da chi certo non lo amava quanto Nori, ovvero quel Vladimir Nabokov che lo tacciò d’essere mediocre. Un giudizio tranchant, ingeneroso nei confronti di uno scrittore che, se non fu il più vicino al popolo russo, fu senz’altro il più vicino all’uomo e al suo sangue palpitante.
Il professor Nabokov – a sua volta vittima di censura in Europa con Lolita, opera ritenuta scabrosa, rifiutata da molti editori – con le sue Lezioni di letteratura russa (pubblicate da Adelphi nel 2021) è deus ex machina per chi, come noi, tenta di indagare il controverso rapporto tra letteratura e potere nella Grande Madre Russia. Tra autori conniventi, se non del tutto inclini alla propaganda; scrittori succubi; artisti, poeti e intellettuali rivoluzionari, sovversivi, meritevoli di finire ibernati al gelo della steppa. Troviamo contezza di alcuni passaggi salienti nel saggio che il professore titola Scrittori, censori e lettori russi (1958), che si apre con una considerazione quanto mai attuale:
“È difficile astenersi dal sollievo dell’ironia, dal lusso del disprezzo, quando si considera il disastro che mani docili, obbedienti tentacoli guidati dall’enfio polpo dello Stato, sono riuscite a fare di quella cosa ardente, fantasiosa, libera che è la letteratura. Di più: ho imparato a fare tesoro del mio disgusto in quanto so che, nutrendo un sentimento così forte per la letteratura russa, sto salvando quanto posso del suo spirito”.
Immaginiamo che anche Nabokov “sanguinasse ancora” quando scrisse questo disincantato preambolo, presentando la letteratura russa come relativamente recente nel tempo e circoscritta nello spazio, condensata nei capolavori di una dozzina di maestri tra Otto e Novecento. Un secolo tondo all’interno del quale gli scrittori russi non fanno che oscillare tra le spinte zariste che li vorrebbero al servizio dello Stato e l’opinione di critici radicali che, invece, li vorrebbe al servizio delle masse; per scivolare, subito dopo, in un nuovo tipo di regime, sintesi hegeliana che unisce le due spinte in una sola, uno “Statomassa” ancora più castrante per l’artista. Chi è l’artista?
Se rivolgiamo la domanda ad Aleksandr Puškin, nella Russia degli zar, risponderà che artista è colui che oppone versi arroganti, dannosi al potere e alle sue manifestazioni; colui che scioglie le briglie all’audacia del pensiero, che lo lancia nella sensualità della fantasia e nei rischi non calcolati della provocazione. Talmente non calcolati da spingere lui stesso a sfidare a duello il barone Georges d’Anthès, avventuriero della Francia monarchica, consegnandosi alla morte l’8 febbraio del 1837 e lasciando a noi in consegna questi versi:
“Solitario seminatore di libertà,/sono uscito presto, prima della stella;/con mano pura e innocente/nei solchi divenuti servi/ho gettato un seme vivificatore –/ma ho solo perduto il mio tempo,/i buoni pensieri e la fatica…/Pascolate, pacifici popoli!/Non vi risveglierà il grido dell’onore./A che serve al gregge il dono della libertà?/Bisogna solo accoltellarlo o tonsurarlo./La loro eredità di stirpe in stirpe/è il giogo con i sonagli e la frusta”.
(“Uscì il seminatore a seminare i suoi semi”).
Se ci spostiamo di qualche decennio e rivolgiamo la domanda a Nikolaj Vasil’evič Gogol’, cittadino timoroso e ligio, questi tenterà di convincere noi, l’autorità costituita, i critici e sé stesso che Il revisore e Anime morte sono conformi alla tradizione e non vi è traccia di denuncia sociale. Lo stesso Dostoevskij in gioventù venne bandito e per poco non fu giustiziato. Il 19 dicembre 1849 lo troviamo sul patibolo, condannato a morte dallo zar Nicola per essere membro del “Circolo di Petrasevskij”, salvandosi poi per il rotto della cuffia.
Proviamo adesso a immaginarci tra il pubblico che affolla il Teatro Aleksandrinskij di Pietroburgo, una fredda sera del 1896. Sul palcoscenico ha appena debuttato Il gabbiano, di Anton Čechov, ma la giovane protagonista, Vera Komissarževskaja, interprete del personaggio di Nina, abbandona la scena ammutolita dall’ostilità della platea.
Anche il monumento Lev Tolstoj fu sottoposto ad ampie sforbiciate e attacchi feroci: se la critica lo accusò più volte di aver ritratto i “romantici spassi” di signori titolati, la Chiesa lo scomunicò per aver elaborato una fede tutta sua. Lo scrittore che ebbe tredici figli e dopo una crisi mistica mise in discussione non solo il proprio matrimonio, ma le relazioni universali tra uomo e donna, vide nella Sonata a Kreutzer la sua opera più censurata. La radicale chiamata all’astensione dal sesso, incluso quello a scopo riproduttivo, fu bandita tanto dalla Russia quanto dagli Stati Uniti, dove l’autore fu liquidato da Theodore Roosevelt come un “sexual moral pervert”. Con la sua morte si chiuse l’Ottocento e si inaugurò un secolo per molti aspetti più avverso alla letteratura russa.
Un turbinio di talenti era sbocciato poco prima della Rivoluzione, a rinverdire il modernismo della poesia, della prosa e della pittura. Il simbolista Aleksandr Blok su tutti, al quale la poetessa Marina Cvetaeva dedicò versi di amore onomatopeico (“Il tuo nome è una rondine nella mano,/il tuo nome è un ghiaccio sulla lingua./Un solo unico movimento delle labbra./Il tuo nome sono cinque lettere”. Da “Versi per Blok”), passando per il grande poeta futurista Vladimir Vladimirovič Majakovskij, che invece Cvetaeva ebbe modo di ascoltare dal vivo, così come ebbe il tempo di intrattenere una breve amicizia con Osip Mandel’stam.
Diversa Anna Achmatova, la poetessa che con la sua voce e la sua esperienza di vita ha rappresentato più di tutti l’epoca della Russia staliniana, i cosiddetti “anni carnivori”. È lei il simbolo dell’intellettualità russa schiacciata dalla macchina politica, alla quale è sopravvissuta per farsi portavoce dei poeti e di un intero popolo.
“No, non sotto un cielo straniero,/non al riparo di ali straniere:/io ero allora col mio popolo,/là dove, per sventura, il mio popolo era”.
(“Requiem”).
Chiudo questa carrellata, che certamente non ha pretesa di esaustività, con l’autore che più amo perché come pochi rifiuta un’etichetta. Michail Bulgakov, scrittore di Kiev, è naturalmente portato a debordare oltre i margini della realtà e dei generi. Quando la stampa sovietica dichiara che “ogni scrittore satirico nell’Urss attenta al regime sovietico”, scrive una lettera aperta nella quale prega il governo di poter lasciare il Paese:
“Prego di prendere in considerazione il fatto che l’impossibilità di scrivere per me equivale a essere seppellito vivo”.
Bulgakov è il jazzista della letteratura russa, consentitemi l’accostamento. Uno sperimentatore della tensione, della sovreccitazione narrativa che trova nel suo capolavoro, Il Maestro e Margherita, l’apoteosi di un uomo che scrive ricorrendo al più geniale dei sotterfugi: il trucco del mago, la messinscena demoniaca e fumogena che rende accettabile la satira persino ai censori, incapaci di fiutarla.
Quando Bulgakov fonde il piano del reale con quello dell’allegoria realizza pienamente il messaggio che Nabokov ci consegna nelle sue Lezioni. Mette in atto il “gioco sacro” che è la letteratura, al quale bisogna saper giocare, poiché il diritto di creare e criticare sono i doni luminosi che ne derivano, le sole armi di cui l’uomo dispone contro il Male Assoluto, ovvero, contro il proprio istinto all’autodistruzione.