Quante volte davanti a un’opera d’arte, dalla soave perfezione della statuaria classica alle volute barocche e alle guglie delle cattedrali gotiche, passando per Leonardo, Michelangelo e Brunelleschi, avete ingenuamente pensato: “Di geni come questi non ne nasceranno più!”.
Per fortuna le cose non stanno così, altrimenti avremmo visto soccombere la nostra civiltà nel buio pesto della barbarie. L’avremmo guardata consumarsi lentamente nell’assenza di grazia, privata della bellezza e della spiritualità che solo il genio artistico riesce a infondere alla materia grezza. Per fortuna le cose stanno diversamente e il nostro tempo ha avuto la buona sorte di incrociare le visioni di Gaudì e Picasso, giusto per fare due nomi a caso.
Dunque, cos’è che ci impedisce di riconoscere il genio quando lo incontriamo in carne, ossa e bozzetti sul cammino della nostra contemporaneità? Cos’è che inganna il comune sentire al punto da non riuscire a disvelare e glorificare in tempo reale la grandezza e l’opera di un Maestro al lavoro, nel preciso istante in cui le mani plasmano e la mente ribolle di universi paralleli?
Non saprei dirlo. Ma so per certo che Nik Spatari, poliedrico artista sul quale l’età non ha potere, è un genio di fama internazionale per troppo tempo disconosciuto dalla sua stessa Terra (che è anche la mia), questa granitica Calabria che vive e muore del solo mito della Magna Grecia.
Nell’ormai lontano 1969 Spatari, assieme alla moglie Hiske Maas, combattiva e passionale artista di origini olandesi, regalava alla Calabria un’esperienza utopica che oggi è una realtà eccellente e stupefacente, senza precedenti nella regione e con pochi confronti sul territorio nazionale: il MUSABA, Parco artistico-laboratorio-scuola appena fuori dal centro abitato di Mammola, in provincia di Reggio Calabria. Un gioiello di creatività in continuo divenire, nel quale ogni artista, approdando in questo spazio sospeso tra sogno e natura, può lasciare traccia del proprio estro e contribuire alla ricchezza di un patrimonio unico.
Eppure, mentre me ne sto col naso all’insù a contemplare, estasiata, la maestosa volta che riproduce “Il sogno di Giacobbe”, Hiske – che mi accompagna nella visita come una bionda Pocahontas dei Paesi Bassi, pur definendosi ormai “terrona” a tutti gli effetti – lamenta la mancanza di attenzione e curiosità proprio da parte dei calabresi “testetoste”, che a Mammola ci vanno volentieri a mangiare il pesce stocco più buono del mondo, ma raramente allungano il passo fino alla preziosa collina dei colori, a osservare da vicino quelle opere che pure si stagliano imponenti lungo la Statale, come un richiamo vibrante che non raggiunge mai le orecchie e il cuore di chi non vuol sentire.
La mia giornata al MUSABA, baciata da un sole caldo (benché sia fine gennaio) che accende tutte le sfumature e le scaglie di materia incastonata nel verde della collina, tra i ruderi di antichità che erano in stato di abbandono e che adesso rivivono in armonia col presente, si conclude nel modo più inaspettato e piacevole possibile: i tratti del mio viso reinterpretati dal segno inconfondibile del Maestro.