Ghostwriting, l’arte di scrivere al nero

“Ci sono i miei racconti alla Poe e i miei racconti alla Dunsany ma ahimè, dove sono i miei racconti alla Lovecraft?”.

Questa l’amara domanda che lo scrittore statunitense Howard Phillips Lovecraft (1890 -1937) poneva a se stesso, ancor prima che alla destinataria di questo estratto epistolare, a proposito della sua pionieristica attività di “ghostwriter”, ovvero “scrittore fantasma”. Fantasma, sì. Se non “ombra”, “negro” e ogni altra nuance oscura possa concorrere a indicare una figura precisa, dai contorni ben delineati, malgrado il buio che la avvolge: quella dello scrittore per conto terzi.

Creatura mitologica, seppure in carne e ossa, lo scrittore fantasma altri non è che un autore professionista – paradossalmente di talento – pagato (o meglio, sottopagato) per scrivere al posto altrui. Insomma, un “prestapenna” che non potrà mai fare da prestanome, poiché il nome che è necessario dare in pasto al pubblico è quello altisonante del quale l’alias è misero sostituto. Roba da crisi di identità! Un rompicapo pirandelliano alla Uno, nessuno e centomila, alla Dr. Jekyll e Mr. Hyde, della serie: impiegato, manovale, dermatologo, fuochista o chicchessia di giorno e paroliere da Nobel e Oscar la notte.

Già, perché il ghostwriter, da bravo mortovivente suicida, riesce a impiccarsi alle parole secondo le tecniche più svariate, a seconda di quel che richiede il mercato, cimentandosi nel campo editoriale come in quello musicale, nel teatro come nel cinema, nella sceneggiatura e nelle recensioni; saggi, articoli da blog o carta stampata, finanche stornelli, brindisi per matrimoni, omelie e messe cantate. Ogni genere di contenuto, purché non contenga la propria firma in calce. Quella è l’unica cosa che lo scrittore fantasma non può permettersi in nessun caso di apporre, altrimenti che fantasma sarebbe? Mors tua vita mea! dichiara in coro la committenza.

Intendiamoci, quella dello scriba “per conto di” è professione antichissima, lungi da me metterla in discussione in modo acritico. Risale al tempo in cui alla scrittura veniva riservata l’aura della sacralità e attraversa i passaggi più miserevoli della storia umana, quando scrivere una lettera o imbastire un documento, sia pur con qualche licenza poetica non richiesta, costituiva non solo un atto di pubblica utilità ma, talvolta, un gesto nobile nei confronti del singolo, privato della capacità di esprimersi in autonomia per il male atavico dell’analfabetismo. La questione odierna, però, è assai più subdola e – non me ne vogliano grandi, medi e piccoli editori, al pari di grandi, medi e piccoli scrittori e interpreti – eticamente più rilevante. Vuoi perché il mondo del web e delle libere professioni risponde a una fluidità di leggi non scritte che, sovente, se ne infischia di quelle scritte; vuoi per la dittatura tecnocratica imperante, che in pochi anni ha ridotto la Scienza Umanistica a passatempo per straccioni, sta di fatto che il fenomeno del ghostwriting ha assunto sempre più marcatamente l’alone nero cui attinge e nel quale è relegato.

Prostituzione. Di questo si tratta, se vogliamo chiamare le cose col loro nome. Un sistema economico, culturale e subculturale che si regge sul mercimonio delle idee e dell’ispirazione creativa ancor prima che sulla parola in quanto tale. Uno scambio iniquo, come iniqua è la retribuzione di coloro che, nell’ombra, si fanno carico di rendere in forma compiuta, grammaticalmente accettabile se non addirittura stilisticamente raffinata e competitiva, la sequela raffazzonata di memorie e appunti sparsi che l’aspirante autore (semplice detentore o protagonista di un fatto di vita vissuta) pretende di trasformare in capolavoro, magari riuscendoci. Meriti, premi, successi di critica e di pubblico, carriere da fuoriclasse del qualunquismo e, non da ultimo, royalty remunerative, a scapito dello scrittore al nero, che dal suo sottoscala vede splendere la luce riflessa del proprio intelletto artistico.

Chi sono i fruitori-magnaccia del ghostwriting? Ovviamente è l’editore il tramite tra l’ectoplasma e il fruitore ultimo, nella maggior parte dei casi una celebrità (volti noti dello spettacolo, dello sport, della politica, ecc.) che si rivolge ai servigi di una “penna ombra” per confezionare a tavolino la sua interessantissima (auto)biografia. Poco male! mi viene da dire, se rapportato ai casi in cui, come si accennava, a ricorrere a questa pratica sia un rispettato collega del “ghost” che spaccia romanzi (idem canzoni, interviste, articoli, ecc.) per farina del proprio sacco, col beneplacito di un sottobosco connivente. In questi casi la figura del ghostwriter compie, suo malgrado, un doppio salto carpiato, dribblando un’altra figura mitologica destinata all’estinzione, quella dell’editor, cui in effetti sarebbe deputato l’intervento massiccio – che ai tempi d’oro poteva tramutarsi in cassazione senza appello – sulle ciofeche con pretesa di opera d’arte.

Su tutto aleggia indisturbata la questione del diritto d’autore, che il fenomeno del ghostwriting rende estremamente complessa. Di fatto, siamo di fronte a una forma di “plagio autorizzato”: il committente si appropria della paternità di uno scritto senza esserne l’autore originale, patteggiando un compenso in cambio di manodopera editoriale e, ovviamente, silenzio. Nulla a pretendere, caro il mio “ghost”!

E tu, lettore, ti sei chiesto che ruolo hai all’interno di questo meccanismo perverso? Hai diritto di conoscere la provenienza originale, la filiera, del “prodotto culturale” del quale usufruisci (leggi, ascolti, guardi), al pari di qualsiasi altro ambito di “consumo quotidiano”? Hai diritto di sapere che l’illustre Taldetali altri non è che un millantatore? Non so quale sia il tuo ruolo, lettore, né se tu possa “leggere responsabilmente” prima o poi, ma ricorda: dietro ogni grande writer potrebbe nascondersi un ancor più grande ghostwriter.

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