Effimeri come lucciole

Non avevo mai letto Antonio Moresco prima d’ora. Prima che La lucina si aggiudicasse il Premio Letterario Tropea 2014.

Di questo grande Autore contemporaneo – della sua ipersensibilità “scomoda”, anticonformista e visionaria – sapevo davvero poco. La Sua figura esile, impalpabile, per anni al centro di polemiche e snobismi editoriali tanto feroci quanto vacui, era colpevolmente sfuggita alla mia curiosità letteraria. Questa lucina, accesasi all’improvviso in un momento in cui si fa un gran parlare della crisi del genere “romanzo”, ha attirato la mia attenzione su un’opera che si colloca “tra Leopardi e Il Piccolo principe”.

Come da abitudine quando entro in dialogo con un autore sconosciuto, anche in questo caso mi guardo bene dal filtrare la mia istintiva reazione all’incipit attraverso la lente distorta delle recensioni (allineate e non), delle motivazioni, delle critiche. Semplicemente, leggo.

Leggo una pagina e mi sento subito a disagio, infastidita, quasi nauseata. Parole vegetali e animali sbucano da tutte le parti, con una ripetitività ossessiva e arcaica. Si rincorrono voracemente, riproducendo in maniera iperrealistica l’abbandono di un borgo sperduto, risucchiato da una natura spietata, “matrigna” (in senso strettamente leopardiano e nichilista). Bosco e sottobosco pullulano di una vita talmente viva da mettere i brividi e indurre questa prima persona narrante – una voce che, già sulle prime, si intuisce provenire da un altrove indefinito e recondito – a chiedersi:

 

“Dove posso andare per non vedere più questo scempio, questa irreparabile e cieca torsione che hanno chiamato vita?”

 

Una domanda che suona all’orecchio come il disperato e straziante addio di chi ha i giorni contati, di chi sa che deve abbandonare questo mondo per un nulla freddo e nero, di chi, forse, l’ha già abbandonato.

Risucchiata dagli strapiombi naturali ed emotivi di questa lettura, comincio, poco a poco, a sentirne la dirompente forza poetica. Le vespe infuriate, che si gettano “a capofitto nella polpa dei frutti non raccolti che marciscono sugli alberi di questo posto disabitato e fuori dal mondo”, mi ronzano talmente vicine che, anch’io, comincio a temerne il pungiglione. E’ una narrazione in tre dimensioni, anzi, in quattro, nel momento in cui il dialogo tra il mondo dei vivi e quello dei morti si fa sempre più fitto, concreto, tangibile. E quando si oltrepassa definitivamente la soglia del non ritorno, la voce di Moresco si sovrappone, nella mia testa, a quella ultraterrena di Walt Whitman:

 

“Un bambino domandò: cos’è l’erba? Offrendola a me a piene mani. Cosa potevo rispondergli? Non lo so più di quanto lo sappia lui”.

 

E a quella di Whitman che parla per bocca di Michael Cunningham in Giorni memorabili (Bompiani, 2007):

 

“Walt diceva che i morti si trasformano in fili d’erba, ma non c’era erba dove avevano sepolto Simon. […] In realtà è ancora con noi. Non lo senti?”

 

E, alla fine, dopo aver letto l’ultima pagina, prendo atto che la lucina che si accende nel buio della notte, come quelle palpitanti di rosso nei piccoli cimiteri di paese, ha illuminato tutti i mondi possibili di un chiarore assoluto, inevitabile e liberatorio.

 

“C’è solo, da ogni parte, questo disperato pullulare di vita e morte attraverso il tempo, lo spazio, questo disperato fantasticare…”.

 

"La lucina", A. Moresco
“La lucina”, A. Moresco

 

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