Prima di voltare pagina sul tempo consumato desidero condividere con voi due gemme letterarie che, per varie ragioni, nel mio personale bilancio di fine anno si collocano tra le scoperte più preziose.
Si tratta di poesia araba. Chi mi conosce sa che tanto è sufficiente a porre le opere in questione sotto una luce privilegiata, ma stavolta voglio spingermi oltre e azzardare un accostamento insolito, un gioco di specchi, un’operazione alchemica. Questo meritano la potenza dirompente dei versi, la natura rivoluzionaria di chi li ha concepiti, la passione e il coraggio di chi li ha tradotti per la prima volta in italiano, schiudendo a noi tutti le porte di universi sconosciuti.
Nizār Qabbānī e le sue poesie più belle
È il 1971 quando il poeta siriano raccogliere in un’antologia dal titolo Le mie poesie più belle trenta delle poesie che ritiene maggiormente significative della propria produzione, ovvero un florilegio dissacrante, che a partire dall’esordio de Qālat li al-samrā’ (Una brunetta mi disse), attraversa la storia, il costume e le contraddizioni della società siriana come un treno lanciato a tutta velocità contro i dogmi religiosi, patriarcali, puritani e linguistici entro i quali può trovarsi imbrigliata ogni forma di espressione e convivenza.
“La poesia è la patria delle cose che si ribellano a loro stesse,
e delle forme che rifuggono la propria forma”.
È il 2016 quando i versi vivifici di Nizār Qabbānī vengono tradotti per la prima volta in italiano grazie alla passione dell’arabista barese Silvia Moresi e di Nabil Salameh, cantautore e fondatore del gruppo Radiodervish dedicatosi alla teatralizzazione dell’opera.
Tra le motivazioni di colei che ha “maneggiato” con cura e sapienza le parole del poeta per restituircele, la volontà di «poter parlare di mondo arabo, di Siria, da un altro punto di vista. Volevamo parlare di letteratura, di cultura e di una società intellettualmente viva e vitale che troppo spesso scompare nei racconti dei media».
La silloge, edita da Jouvence con postfazione di Paola Caridi, è uno scrigno di emozioni, una lunga confessione che tocca nell’intimo ciascuno di noi, una sferzata che ci scuote facendoci vacillare, perché Qabbānī è il “poeta delle donne”, il “poeta dell’amore” ma non solo. Come ci fa notare la sua raffinata traduttrice «Qabbānī è lontano da un banale sentimentalismo. Nasconde un messaggio politico. Utilizzò l’amore come forza eversiva da opporre ai mortiferi poteri di religione e politica. Nizar fa parlare donne vere, creature vive e pensanti, consapevoli, maliziose, ribelli, ingenue e non sempre senza colpe riguardo alla loro condizione».
“[…] Amerai milioni di volte,
e ritornerai, sempre, come un re sconfitto”.
Wallada bint al-Mustafki, la “Saffo Andalusa”
Una donna altrettanto dirompente risponde, e corrisponde, ai versi di Qabbānī da un altro tempo, siamo nel 1001, e da un altro luogo: Cordova, capitale cosmopolita dell’Andalusia araba, fiore all’occhiello delle avanguardie filosofiche e culturali del luminoso califfato omayyade.
«Ho incontrato la poetessa e principessa Wallada per caso. L’ho incontrata a quasi mille anni dalla sua morte, su una bancarella di libri usati a Paseo del Prado, a Madrid. […] La sua vita è un romanzo avvincente, un poema intimo ed epico al tempo stesso. Wallada è una protagonista trasformatasi in icona, in simbolo della libertà della donna, in un modello di condotta libertaria e libertina».
Il calzante ritratto della poetessa è opera di Claudio Marrucci, poeta a sua volta, traduttore e curatore della raccolta Cammino orgogliosa per la mia strada, edita da Fusibilialibri con un saggio di Antonio Veneziani.
Non stentiamo a credere al temperamento della “Saffo Andalusa” né al suo potere di precorrere i tempi sapendo che si fece ricamare sulla manica sinistra della tunica i versi che danno il titolo alla raccolta:
“Sono stata creata da Dio per la sua gloria,
ma cammino orgogliosa per la mia strada”.
Wallada è amante insaziabile che si strugge di passione e gelosia per l’amato, donna indipendente che ogni venerdì mette in piedi un salotto letterario presso la propria corte, scrittrice colta e raffinata, personalità poliedrica e brillante che tuttavia combatte contro un animo tormentato.
“Ci rincontreremo mai/dopo questa separazione?
[…] Le notti sono eterne,/questo distacco non ha fine e/la pazienza non è capace
d’allentare la morsa del non sapere”.
L’impressione ultima è che Marrucci sta a Wallada come Moresi e Salameh stanno a Qabbānī, ovvero come “genitori putativi di versi”, incaricati di sprigionarli nel mondo come petali profumati in grado di risvegliarci dal torpore con la loro fragranza.
La dirompente sensualità dei poeti ribelli mi sembra dunque una buona fine e…un ottimo inizio…