D’Annunzio e la Calabria, storia di un mito divenuto realtà

Quando il nome di un personaggio si avvinghia nel tempo a quello di un luogo geografico e viceversa, a torto o a ragione, sull’onda della leggenda o per verità documentata, la simbiosi, reale o irreale che sia, finisce per incidere in maniera definitiva sull’immaginario collettivo e rendere pressoché vano (addirittura inutile?) ogni tentativo di disgiungere le due entità. È il caso del poeta Gabriele D’Annunzio, il “Vate” dispensatore di nomi, motti, definizioni e vere e proprie operazioni di marketing ante litteram, e la città di Reggio Calabria, la cui indole, altrettanto votata alla mitopoietica e al miraggio, ben si sposa con l’operazione.

Che il lungomare cittadino – linea di demarcazione tra il vero e il verosimile, tra terraferma e spazio immaginifico abitato da fate, sirene e “orchefere”, per dirla con l’amato Stefano D’Arrigo (Horcynus Orca, 1975) – sia stato definito da D’Annunzio “Il più bel chilometro d’Italia” è vanto cui nessun reggino e nessun calabrese avrebbe mai saputo rinunciare; perché al calabrese, dunque al reggino, il fatto che una cosa di sua proprietà/identità sia riconosciuta e annoverata come la “più qualunquecosa d’Italia” e dell’universo provoca un piacere senza eguali, orgasmico. Un piacere alla dannunziana maniera. Ecco perché leggere il saggio La Via Marina di Reggio che lo studioso Agazio Trombetta diede alle stampe nel 2001, per Culture Edizioni, nel quale si argomenta in modo convincente che il Vate non solo quella frase non l’avrebbe mai pronunciata, ma che la città di Reggio l’avrebbe vista solo col binocolo, alla lettera, suscita in noi tutti la stessa delusione del bambino che scopre la farsa di Babbo Natale. 

“L’unica volta che attraversò lo Stretto di Messina, in direzione della Grecia, a bordo del panfilo Fantasia era il 1895” dice Trombetta, aggiungendo che “La sua visione del mare potrebbe eventualmente riferirsi alla Reggio presismica e quindi in un periodo in cui la Via Marina non aveva l’aspetto di viale alberato, ma piuttosto quello della Real Palazzina che si snodava lungo l’asse più prospiciente il mare”.

Come dargli torto! Quello che oggi è definibile, a ragione, uno dei lungomari più suggestivi d’Italia, è lascito del compianto sindaco Italo Falcomatà, che nella sua “Primavera” donò ai propri concittadini uno scorcio di bellezza e decoro impreziosito da ficus strangolatori e resti archeologici. Che il poeta-vate abbia intravisto dal suo panfilo la linea di costa reggina è certamente credibile, ma si trattava del Lungomare Matteotti, come si chiamava all’epoca, abbozzo di skyline precedente il terremoto del 1908. Da dove arriva, dunque, la felice attribuzione? Stando a Trombetta, fu un colpo di genio del telecronista Rai Nando Martellini, in occasione di una radiocronaca sportiva.

Eppure, qualche certezza di un legame tra D’Annunzio e le Calabrie sussiste. Occorre frugare tra le lusinghe a fior di pelle per trovarlo, come è lecito conoscendo il soggetto; tra le malìe dei cinque sensi e gli inebriamenti da capogiro. Eccolo, ad esempio, citare la città di Reggio Calabria in un passo de Le Faville del Maglio (1924-28), tra visioni ed effluvi:

“A Reggio di Calabria aspetto Morgana su la spiaggia, di contro alle boe d’ormeggio, mangiando un limone o un cedro, e infilando tra un morso e l’altro le conchiglie in un filamento d’alga per farne una paterna collana, con le dita profumate di bergamotto. Chiedine a Decio Stocco reggino del second’anno di ginnasio, che più d’una volta m’ha alluciato”.

Poiché del Vate può dirsi tutto e nulla, nessuno ha facoltà di escludere che la scena abbia avuto luogo davvero sulla spiaggia odorosa di zagare, né che la potenza onirica ed evocativa del verso sia meno reale del reale. Propende per questa ipotesi anche il carteggio intercorso tra D’Annunzio e il Commendator Annunziato Tedesco, di San Giorgio Morgeto (RC), fondatore nel 1908 della “Fabbrica di Liquori e Profumi” produttrice della rinomata “Calabrisella” (1910), l’acqua di colonia ai fiori di agrumi dalle proprietà prodigiose che il poeta era solito utilizzare.

Dalla riviera del bergamotto a quella del cedro il passo è breve! Ancora una volta, tra i piaceri olfattivi e di papilla, ecco che la voluttà del Vate riprende la via delle Calabrie, così che nel racconto Leda senza il Cigno, pubblicato a puntate nell’estate del 1913 su Il Corriere della Sera, egli scrive:

“Sorrido pensando a quegli invogli di fronde compresse e risecche, venuti dalla Calabria che un giorno vi stupirono ed incantarono, quando ve li offersi sopra una tovaglia distesa sull’erba, non ancora falciata”, in riferimento ai panicìlli cosentini, ghiotti fagottini d’uva passa avvolti nelle foglie di cedro.

Una cosa è certa: l’incontro tra il Vate e la terra calabra fu incontro di amorosi sensi, dunque vero più del vero, esperito più dell’inesperito, pronunciato più dell’impronunciato.

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