Dall’orrido al sublime, anatomia e meccanica della parola

La letteratura dell’orrido indossa da sempre abiti sublimi. Conduce a vette altissime, al limitare delle quali pochi eletti hanno piena facoltà di accesso, dopo aver percorso – bacinella, sputacchiera o sacchetto di carta alla mano – meandri nauseabondi, abissi e cunicoli infestati di macro e micro organismi capaci di fagocitare lo spazio-tempo, gallerie di secrezioni purulente, filamenti organici, inorganici e onirici, incrostazioni paranoiche, reminiscenze traumatiche, sentieri di nervature scarnificate, valvole di sfogo in ebollizione e stazioni di perdizione elettromagnetica. Un vero e proprio percorso iniziatico che sviscera, alla lettera, ogni piega del disagio umano fino a tramutarla in catarsi o nel suo esatto opposto, una forma di nichilismo cosmico sulla superficie del quale galleggiano, esanimi, tutte le leggi del creato. Da Seneca a Quentin Tarantino, passando per i “poeti maledetti”, l’elegia dell’orrido fa leva in maniera esplicita sull’anatomia, la fisiologia e la meccanica della parola per scardinare l’accesso alle dimensioni più tetre dell’immaginario. Non disdegna di pungolare la materia inerte che sonnecchia sul fondo delle coscienze per mezzo di una lancia avvelenata.

La nuova epica dell’orrido fa tappa obbligata fra le edizioni dell’Est Europa. Trova patria elettiva in Romania, in una Bucarest sotterranea, onirica e pulsante, “apparsa all’improvviso, già in rovina, cadente, con l’intonaco scrostato […], con i fili elettrici sospesi sopra le strade in grovigli tristanzuoli […]”, dove “[…] Il geniale architetto aveva progettato vie contorte, fogne stasate, ville sbilenche invase da erbacce, grandi magazzini slanciati e spettrali. […] Bucarest era stata progettata come un grande museo a cielo aperto, un museo della malinconia e del decadimento di ogni cosa”. Dai bassifondi di una simile città ci raggiungono le visioni raccapriccianti di Solenoide (2015), tomo di quasi mille pagine a firma Mircea Cărtărescu, rese in un italiano eccelso dalla traduzione di Bruno Mazzoni in stato di grazia. Senza scomodare Kafka e il destino toccato in sorte al povero Gregorio Samsa in La Metamorfosi (1915), lo scrittore romeno riesce nell’impresa di fare della letteratura anatomica un’arma contro il nostro stesso corpo ammorbato di disumanità, e del processo suppurativo una forma virulenta quanto efficace di spurgo dell’anima:   

“[…] racchiudo in me visceri appiccicosi, sistemi e apparati gorgoglianti, sostanze nutrienti e putrescenti, le mie ghiandole secernono ormoni, il mio sangue trasporta zucchero, ho una flora intestinale, nei miei neuroni le vescicole piene di sostanze chimiche scendono attraverso microtubuli e le liberano nello spazio tra le sinapsi e tutto questo accade senza che io lo sappia e indipendentemente dalla mia volontà, per delle ragioni che non sono mie. Tutto questo ancora oggi mi sembra una cosa mostruosa, il prodotto di una mente saturnina e sadica, che probabilmente ha impiegato eoni per immaginare come poter umiliare, terrorizzare e torturale più crudelmente una coscienza”.   

Allo stesso modo, rende i congegni  meccanici e ipertecnici il solo linguaggio comprensibile a un’umanità che da tempo ha rinunciato all’estetica e all’etica a favore di una tecnocrazia imperante, squallida, di cattivo gusto, pervasiva in tutti gli strati della società occidentale:

C’erano, aggrovigliati entro cornici di strane forme, punterie e volani, ingranaggi a spirale e, ovviamente, ruote dentate e meccanismi a cremagliera, e pure dominanti erano altre forme, ignote alla meccanica delle parti interne degli orologi. […] Una testimonianza della realtà di quel mondo così strano, qualsiasi cosa si voglia intendere per realtà”.  

Viene da chiedersi se una simile letteratura, ripiegata tra gli spasmi di una specie umana agonizzante, allo stadio terminale, sia complementare a una letteratura altrettanto destabilizzante ma di segno opposto. Può la lingua anatomico-meccanica, estroflessa per definizione – persino quando rivolge lo sguardo all’interno dei corpi oggetto della propria indagine – può questa lingua epidermica essere contraltare del linguaggio poetico-meditativo, introflesso, della letteratura dell’essere? Può L’uomo senza qualità (1930) di Robert Musil (tre tomi incompiuti, quasi milleseicento pagine) con le sue strutture formali e le sue relazioni funzionali porsi in alternativa o più semplicemente incasellarsi nella giusta ansa del costato letterario che, oggi più che mai, tende a esprimere “qualità senza l’uomo”?

Laddove convergono linee di pensiero a cavallo tra epoche diverse, dove l’antimetafisica e la critica ai valori immutabili sfociano nella relazionalità e richiamano la mente umana al compito di mantenere libero il fluire del pensiero dalle costrizioni retoriche, là il linguaggio si fa specchio della società che lo produce e lo imprime su carta. Così il musiliano Ulrich, studioso di fisica matematica e algebra, troverà terreno comune nella qualità oggettiva, scientifica e misurabile di ogni cosa, rassicurando il suo omologo contemporaneo, l’insegnante romeno Nicolae Borina, sul fatto che “questo si può, questo non si può. Questo è vero, questo non è vero, scegliamo da una babele di possibilità, probabilità, irrealtà e stranezze un’unica struttura che chiamiamo realtà, su cui ci basiamo per poter vivere” (Solenoide), non è altro che un compromesso dello “spirito che disfa, scompiglia e ristabilisce in un nuovo rapporto. […] Egli non riconosce nulla di lecito o di illecito perché tutto può avere una qualità che lo immetta un giorno in una nuova grande correlazione. Segretamente odia a morte tutto ciò che si dà l’aria d’essere stabilito per sempre, i grandi ideali, le leggi, e la loro piccola impronta pietrificata, il carattere pacifico” (L’uomo senza qualità).

Potremmo aggiungere che in virtù di questo fluire, lo Spirito, o chi per lui, odi allo stesso modo il linguaggio che lo reifica, lo incarna e ne cristallizza la natura multiforme nelle rappresentazioni letterarie di ogni epoca. Sublimare l’orrido diventa così un’operazione necessaria, dalla tragedia antica al ventre “pulp” dell’America; dall’epica moralistica ai drammi di Marlow e agli scritti di Lewis. Lo Spirito della nostra epoca, ad esempio, pur dichiarandosi alla ricerca smaniosa della “Bellezza”, tanto da farla rimbalzare di bocca in bocca come panacea per tutti i mali (citando a sproposito Dostoevskij), resta imbrigliato in un paradosso risibile: da un lato subisce la dittatura del linguaggio pornografico, dall’altro la formula opposta, ugualmente tirannica, del politicamente corretto. La lingua, sempre più maltrattata e assuefatta alla “Bruttezza”, si fa specchio del nostro esistere. Una liberazione in grande stile, che se ieri e oggi ha consegnato alla letteratura capolavori di oscenità, compendi di turpiloquio, pamphlet di elucubrazioni meccanodigerenti, autobiografie fisiologiche e poemi addominali, domani si troverà a esprimere un pensiero ancora più esile, capace di autorappresentarsi soltanto per stringhe, slogan, formule reiterate, ideografiche, globalizzate, ibride, asessuate e metaversificate. Anche questo è il bello dell’orrido.

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