Dalla Spagna, contro i mulini a vento

Il binario della linea ferroviaria che conduce ad Alcalá de Henares, ridente cittadina a pochi chilometri da Madrid, è affollato di giovani provenienti da diverse parti del mondo, in particolare dal Sud America. Quasi tutti studenti universitari, diretti, come me, in quella che gli arabi per primi definirono al-Qalʿa, “La Roccaforte”, sulle rive del fiume Henares, stravolgendo l’antico nome della Complutum romana.

Non c’è da meravigliarsi se tanti studenti scelgono il borgo madrileno per completare il loro percorso formativo e mettere a fuoco particolari filoni di ricerca: nel 1998, infatti, l’Università di Alcalá e il suo distretto storico sono stati dichiarati dall’Unesco Patrimonio dell’Umanità, orgoglio di una comunità che aveva già di che vantarsi, avendo dato i natali niente meno che allo scrittore Miguel de Cervantes (Alcalá, 1547 – Madrid, 1616), padre dell’amato Don Chisciotte della Mancha.

Sulle tracce di Cervantes e del suo “ingenioso hidalgo”, come recita il titolo originale del capolavoro, decido di intraprendere un viaggio letterario che mi condurrà al cospetto dei mulini a vento, sfidandone la natura malevola, quella che solo un cavaliere senza macchia e senza paura può scorgere sotto mentite spoglie. Ciò che mi incuriosisce, a così tanta distanza dal “Siglo de Oro” che segnò lo splendore della Spagna e l’ispirazione dell’autore, è capire se abbia ancora senso continuare a combatterli; o meglio, se esistano ancora eroi (o antieroi, a seconda di come li intendiamo) della pasta di Don Chisciotte e del suo fedele scudiero, alias spalla comica, Sancho Panza. Esseri letterari o in carne e ossa smaniosi di scagliare la lancia contro ogni ingiustizia che si ammanta di equità.

Così, sulle orme del cavaliere errante, che inevitabilmente finisco per sovrapporre alla magistrale interpretazione di Vittorio Gassman in L’armata Brancaleone, mi sforzo di tenere assieme un punto nodale, ovvero il punto di contatto tra il dramma e la commedia. Quel senso del tragicomico che è pilastro dell’opera di Cervantes e, forse, di un pezzo ben preciso di cultura ispanica e mediterranea.

Nel procedere a ritroso, dalla tomba dello scrittore che più di tutti influenzò la letteratura spagnola, traslata nella chiesa di Sant’Idelfonso a Madrid, alla sua casa natale, in quel di Alcalá, provo l’emozione di una pellegrina che percorre un cammino sacro, benché la gloria di Cervantes arrivò postuma. Nel suo tempo non fu umanista né letterato di successo, anzi, scrisse nelle condizioni più sfavorevoli. Non tutti sanno, ad esempio, che proprio il Don Chisciotte fu composto in parte in Italia, durante un lungo ricovero ospedaliero nella città di Messina, dove Cervantes approdò con una grave ferita alla mano sinistra – “a miglior gloria della destra”, come egli stesso amava vantarsi – di ritorno dalla Battaglia di Lepanto (1571).

Hidalgo e scudiero mi attendono là, in posa su una panchina davanti la piccola casa del loro creatore, intenti ad attrarre i selfie dei turisti, incluso il mio, e alimentare la loro muta tenzone: il dinoccolato cavaliere, inseguitore di avventure e vanagloria, cozzerà sempre col paffuto e pragmatico palafreniere, incapace per natura e stazza fisica di elevarsi al di sopra della realtà. Non può che essere così, poiché Don Chisciotte non è soltanto un romanzo ironico ma è anche, e più, un’opera che ci costringe a indagare la dimensione di chi lotta contro un “muro di gomma” (potere, pregiudizio, privilegio, ecc.), stando attenti a non considerare costui un ingenuo, un grottesco combattente per l’utopia.

Don Chisciotte è, sì, animato da buoni propositi, ma questi sono propri della cavalleria e del contesto storico e antropologico nel quale agisce. Lungi dal ritenerlo un Robin Hood intenzionato a ribaltare le regole sociali del mondo cui appartiene. Pazzia e saggezza sembrano in qualche modo convivere, sovrapporsi l’una all’atra nella misura in cui la realtà muta di significato, scambiando ora mulini per giganti, ora baffute contadine per donne meravigliose. Né l’alter ego di nome Sancho può dirsi sufficiente a riportare il cavaliere coi piedi per terra, poiché il piccoletto incarna l’ignoranza almeno quanto il suo longilineo signore interpreta la follia: entrambe rendono le cose inconoscibili.

“Che un cavaliere errante divenga matto avendone motivo, non c’è né merito né grazie da rendere; il nodo della questione sta in perdere il senno senza un perché e nel far comprendere alla mia dama, che se a freddo faccio questo, cosa sarei capace di fare a caldo?”.

Del resto, ciò che Gustave Flaubert trovava prodigioso in Don Chisciotte, definendolo “comico e poetico al tempo stesso”, è proprio la continua fusione tra illusione e realtà. Racconto e interpretazione si intrecciano, generando una fitta rete di rimandi, tanto che a un certo punto si ha l’impressione che i due punti di vista siano ribaltati. Di tale capovolgimento si ha prova, ad esempio, nell’episodio in cui Sancho discorre per la prima volta con Dulcinea del Toboso per conto del suo signore, che le manda una missiva d’amore. Se all’inizio il motore dell’azione è Don Chisciotte, che costringe lo scudiero a subire le sue folli disamine, in un secondo momento, pazzia acclarata, è Sancho stesso a ragionare (sarebbe meglio dire sragionare) come il suo padrone, mettendo in scena la straordinaria metamorfosi del personaggio.

È così che la costruzione narrativa di Cervantes si rivela in tutta la sua complessità: l’ironia interviene quale elemento dirimente, esempio raffinato del modo in cui l’autore utilizza il registro comico-parodico.

I temi dell’erranza, del viaggio, della ricerca del Sé e del reale sono inoltre pervasi da un’insolubile commistione di culture. Le stesse che nelle terre di mezzo come la Spagna intrecciano Cristianesimo e Islam, Oriente e Occidente, rendendo i confini labili e permeabili. Così Don Chisciotte che lotta contro i mulini a vento si fa anche metafora della ricerca di un’identità smarrita. Un cammino che da queste parti saremmo tentati di sovrapporre a quello spirituale, alla volta di Santiago, o al viaggio per mare di Ulisse, oltre i limiti fisici di Gibilterra e quelli metafisici della condizione umana.

“Pensare che le cose di questa vita abbiano da durar sempre ferme in un punto è pensare inutilmente; sembra anzi che la vita giri tutto a tondo, vo’ dire torno torno: la primavera segue l’estate, l’estate l’autunno, l’autunno segue l’inverno, l’inverno la primavera, e così torna il tempo a roteare ininterrottamente; sola la vita umana corre alla sua fine più veloce del vento, senza aspettare di rinnovarsi, se non sia nell’altra che non ha confini che la limitino.”

Il mio, di viaggio, non può che concludersi nel luogo simbolo di Alcalá de Henares e della letteratura spagnola per antonomasia: l’Aula Magna del Rettorato dell’antica Universitas Complutensis, fondata nel 1498 dal cardinale Francisco Jiménez de Cisneros, l’influente figura che alla morte di Ferdinando II d’Aragona divenne reggente del trono di Spagna. È qui che viene assegnato il prestigioso Premio Letterario “Miguel de Cervantes”, istituito nel 1976 e attribuito il 23 aprile di ogni anno a un autore spagnolo e, alternativamente, a uno di lingua ispanica latino-americana. Vi accedo in punta di piedi, circondata dalle targhe che recano i nomi illustri dei premiati, da Borges a Sabato, passando Vargas Llosa e Sánchez Ferlosio, e ammirando gli scranni intagliati sui quali siedono i membri di giuria e il re in persona, mentre il premiato pronuncia il suo discorso dall’alto del sontuoso pulpito.

La rosa mistica dei letterati che qui hanno visto riconosciuta la loro arte e, perché no, la loro imponderabile pazzia, mi induce a sciogliere positivamente il dilemma di partenza: finché esisteranno mulini-draghi esisteranno Don Chisciotte pronti a sfidarli e servitori fedeli a supporto dell’impresa.

Insomma, per dirla con Gesualdo Bufalino: “Lodato sia Don Chisciotte! Che seppe con tanto anticipo di secoli riconoscere un furibondo gigante sotto la maschera di un innocente mulino”.

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