Calvino e Pasolini nell’Italietta postmoderna

La parzialità che nel fermento politico e culturale dell’Italia anni ‘70 indusse gli intellettuali a schierarsi presso Calvino piuttosto che Pasolini somiglia alla scelta puerile cui ricorre un bambino al quale viene brutalmente chiesto se voglia più bene a mamma o a papà. Tolstoj o Dostoevskij? Etica o poetica? Un dilemma bambinesco e dirimente assieme, all’interno del quale due giganti del pensiero e della letteratura europea di tutti i tempi – del primo si celebra quest’anno il centenario della nascita (15 Ottobre 1923), del secondo si è appena concluso (5 Marzo 1922) – si sono affrontati con la scaltrezza e la stima reciproca che muove i pugili sul ring.

In principio fu la fine di un mondo prima del sorgere di un altro. L’esaurimento dei valori umanistici, dei puntelli antropologici, spirituali, politici e letterari che scandivano una certa maniera di essere e sentirsi italiani, occidentali. La crisi delle poetiche e della modernità: in una parola, l’avvento del postmoderno. Entrambi ne sono espressione, vittime e carnefici. Istituzionale, edulcorato, perfettamente integrato, lucidamente scelto, stilisticamente variato quello di Calvino; borderline, drammaticamente controverso, visionario, responsabilmente sovversivo quello di Pasolini. Due modi antitetici di lasciare traccia nella storia, nel tempo e nell’idea stessa di letteratura civilmente e politicamente impegnata attraverso un vissuto artistico spinto all’estremo delle conseguenze, che nel caso di Pier Paolo Pasolini si traduce niente meno che nel cortocircuito tra la “performance” della propria morte e l’omicidio di Stato.

Un’inquietudine del vecchio nel nuovo e viceversa, che orienta Calvino a rifuggire, se non addirittura rinnegare, l’Italia genuinamente rurale e periferica oggetto della strenua difesa pasoliniana. Gliela rinfaccerà sulle colonne de Il Messaggero, nella memorabile intervista dell’8 giugno 1974, all’indomani del referendum abrogativo sul divorzio, accusandolo, come i più, di essere un nostalgico reazionario.

“Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire”.

Accuse alle quali il poeta corsaro replicherà su Paese sera con l’altrettanto caustica e puntuale Lettera aperta a Italo Calvino: quello che rimpiango.

“L’Italietta è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no”.

In effetti Calvino non può non sapere. Semplicemente sceglie di tirarsi fuori, orientando la propria ricerca verso un altrove distante, irrimediabilmente surreale. L’Italo Calvino nato a Cuba e vissuto a Parigi per tredici anni, i cruciali 1967-80, in buona sostanza se ne frega delle masse che stanno a cuore al suo rivale. Se ne fregava già nell’imbastire Il sentiero dei nidi di ragno (1947), guerra partigiana narrata in forma fiabesca e giovanilistica. Chi attribuisce all’inventiva del maestro la funzione di trarsi in salvo dall’impegno concreto attraverso grandi fughe non ha tutti i torti. Vero è che non possiamo fargliene una colpa, finiremmo anche noi per imbracciare la macabra scure che pretende di separare l’uomo dall’artista (o viceversa).

Nella bella villetta di Square de Châtillon, 14° arrondissement parigino, Italo Calvino conduce una vita appartata, frequentando i fascinosi intellettuali di OuLiPo (Ouvroir de littérature potentielle), l’Officina di Letteratura Potenziale della quale fanno parte Raymond Queneau, George Perec, Jacques Roubaud, Paul Fournel e il fondatore, François Le Lionnais. Quest’ultimo, ingegnere, matematico e scrittore, si cimenta con Queneau nell’ardita applicazione del metodo sperimentale alle scienze creative e umanistiche. Calvino ne resta ammaliato. Comincia a maneggiare la materia narrativa con levità, spronandola a briglia sciolta lungo il sentiero di registri diversificati, linguaggi inventati, formule arcane e soprannaturali, sperdendosi lontano dalla responsabilità del reale. Si verifica così il definitivo scollamento calviniano. L’apertura a un universo parallelo, nel quale le possibilità linguistiche si amplificano a dismisura verso uno spazio di comunicazione che trascende ogni cosa e viaggia a vele spiegate sulla rappresentazione complessa. Il gioco combinatorio della parola si imbroglia e si sbroglia con Il castello dei destini incrociati (1969), opera che Giorgio Manganelli definì:

“Un catalogo dei possibili, un elenco di ipotesi, un dizionario criptico del mondo. Nei loro segni si abbreviano i nodi fatali del destino umano, tutti insieme occupano uno spazio gelido e fastoso nel quale si allineano, mondati da ogni clamore quotidiano, gli eventi rituali e privilegiati, le sventure, le estasi, la morte, l’oscuro itinerario conoscitivo”.

A questo stravagante racconto farà seguito, nel 1972, Le città invisibili, altra combinazione allegorica priva di sviluppo e di personaggi.

Il professore delle Lezioni americane (1988) aguzza l’ingegno per non dichiarare fino in fondo quello che pensa? Si rende evanescente e intangibile per non esporsi al dibattito pubblico di un’epoca plumbea? Di certo compie un esercizio di introversione rispetto all’ego smisurato, erotico e passionale, del rivale Pasolini. Talvolta ammicca al lettore, ne cerca il consenso pur guardandosi dall’essere emotivo o empatico. Sembra quasi vivere pure lui sugli alberi con Il barone rampante (1957), osservare il mondo e la società al riparo di una lente telescopica, come il signor Palomar (1983). Eppure, in Leggerezza, una delle “lezioni americane” che avrebbe dovuto tenere ad Harvard prima di morire, confessa:

“In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa. Ma c’è forse un modo per salvarsi dal suo abbraccio mortale. È lo stesso sistema che adopera Perseo per ucciderla senza fissarla in volto, ma guardandola indirettamente riflessa nello scudo di bronzo. […] È sempre la sua salvezza in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà ch’egli porta con sé, che assume come proprio fardello”.

La letteratura non è inutile. Lei sola ci immunizza dalla reificazione attraverso l’esercizio dello sguardo indiretto, laterale. Possiamo, quindi, sentirci liberi di ammirare e detestare entrambi con la stessa intensità. Calvino e Pasolini, come mamma e papà, sono il ricettacolo di un odio-amore che ha il solo scopo di farci emancipare dai rispettivi e opposti modelli, riconoscendo domani – volesse iddio! – gli eredi di una nuova categoria intellettuale. Calvino e Pasolini coppia insolubile, nella misura in cui i limiti dell’uno sono riflesso dei difetti dell’altro e tutt’e due della società di cui si fanno portavoce. L’Italietta, ancora oggi squallida e servile. Ancora potenzialmente onirica e sognatrice.

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