Bulgakov e il Faust sovietico

Lo vedete anche voi, cari lettori? Ditemi che lo vedete, altrimenti farò la fine del povero Ivan Nicolaevič e di quegli altri. Mi rinchiuderanno in isolamento, nella clinica del dr. Stravinskij, a Mosca. Finirò là il resto dei miei giorni, salvo continuare a ricevere le visite non gradite di questo enorme gatto che si comporta da cristiano e della sua bislacca compagnia. Vedete anche voi il micio in panciolle, sì? Non sono pazza! Se ne sta seduto sul sofà, come voi e me, intento a sorseggiare vodka e rilasciare cerchi di fumo nell’aria, aspirando dal suo sigaro. Assieme a Behemoth, il gatto nero, c’è tutta la compagnia cantante: il suo mefitico padrone, il prof. Woland, che se non fosse per l’aspetto impeccabile parrebbe il diavolo in persona (tra i due si è appena conclusa una partita a scacchi, vedete voi!); c’è Margherita, cosparsa della sua crema oscena, che le consente di librarsi in voli stregoneschi; infine, quell’Azazello, il più inquietante di tutti, con bombetta e occhio di vetro. Dice di abitare un “appartamento cattivo” ma, di fatto, se ne sta sul mio divano pure lui e la cosa mi preoccupa.

Si stabilirono da me quando iniziai a leggere Il Maestro e Margherita (1928-40), capolavoro dello scrittore di Kiev, Michail Bulgakov. Non sospettavo che la sua opera, il suo genio, fossero tanto pericolosi. Eppure, sia il poeta Eugenio Montale che i Soviet ci avevano avvisati: il primo disse che “il Diavolo è il più appariscente personaggio di questo grande romanzo”; i secondi avevano provveduto a bandirlo, “ogni scrittore satirico nell’Urss attenta al regime sovietico”. Bulgakov ribatté in una lettera aperta, chiedendo di lasciare il Paese: “prego di prendere in considerazione il fatto che l’impossibilità di scrivere per me equivale a essere seppellito vivo”. Che fare, allora?

Rispondere a quello Stalin che sembrava nutrire nei suoi confronti una sorta di amore/odio con un’opera senza precedenti. Una vera e propria messinscena, talmente allegorica e fumosa da lasciare interdetti critici e censori di fronte all’impossibilità di comprenderne il significato. Un’opera demoniaca, che potremmo dire il “Faust sovietico” per la sua capacità di smascherare il Male mascherandolo sotto le spoglie del Bene. Un sotterfugio orchestrato con trucchi da mago, nella misura in cui persino Gesù Cristo, alias il “Maestro”, poco prima della Passione si concede all’interrogatorio di Pilato sconfessando Matteo, in uno dei dialoghi più straordinari della letteratura di tutti i tempi:

– È vero che sei giunto a Jerushalajim dalla Porta di Susa cavalcando un asino e accompagnato dalla folla che ti acclamava come un profeta?

– Egemone, non ho nemmeno l’asino. È vero che sono giunto dalla Porta di Susa, ma a piedi, accompagnato solo da Levi Matteo, e nessuno mi acclamava, perché allora a Jerushalajim nessuno mi conosceva.

– Lo attesta la gente.

– Questa buona gente è ignorante e ha confuso tutto quello che dicevo. E io comincio a temere che questo pasticcio andrà avanti assai a lungo. La colpa è tutta di chi ha scritto le mie parole travisandole. Levi Matteo mi segue dappertutto con la sua pergamena di capra e trascrive di continuo le mie parole. Ma una volta ho dato un’occhiata a quella pergamena e sono rimasto inorridito.

 

 

Loading...