A lezione con Vladimir Nabokov

Silenzio e in piedi! Il professor Vladimir Nabokov sta facendo il suo ingresso in aula per una nuova dissertazione.

“I posti a sedere sono numerati. Vorrei che ognuno si scegliesse il proprio e se lo tenesse. Questo perché vorrei collegare le vostre facce ai vostri nomi. Tutti soddisfatti? Non si parla, non si fuma, non si lavora a maglia, non si legge il giornale, non si dorme e – per l’amor di Dio – prendete appunti!”.

Come se fosse facile prendere appunti quando parla lui!

L’onore di accedere alle lezioni di letteratura russa che Nabokov tenne tra Stanford e Boston, tra l’autunno del 1940 e la summer school del ’41 – addirittura ad alcuni suoi appunti autografi – ci è stato concesso qualche settimana fa da Adelphi Editore, nell’omonimo volume che le raccoglie, a cura di Cinzia De Lotto e Susanna Zinato.

Di questo privilegio non possiamo che esser grati. Non ha prezzo per un lettore medio degli anni Duemila, abituato a veder candidare narrativa spicciola ai massimi riconoscimenti letterari, poter sbirciare anche solo per un attimo tra igeniali scarabocchi del Nabokov docente, trasalire al suo incipit accorato nel momento in cui, prendendo posto oltre la cattedra, ci ammonisce sul senso ultimo dell’arte letteraria:

“È difficile astenersi dal sollievo dell’ironia, dal lusso del disprezzo, quando si considera il disastro che mani docili, obbedienti tentacoli guidati dall’enfio polpo dello Stato, sono riuscite a fare di quella cosa ardente, fantasiosa, libera che è la letteratura. […] Accanto al diritto di creare, il diritto di criticare è il dono più ricco che la libertà di pensiero e di parola possano offrire”.

Prosegue nelle sue lezioni attualissime, Nabokov, a esplicitare un concetto che noi, figli della pochezza, abbiamo smarrito da tempo e che ha a che fare con l’espressione più alta e indomabile dell’istinto creativo. Ci vorrebbero “buoni lettori” piuttosto che “buoni allievi”, e un poco arrossiamo quando ci mette di fronte all’evidenza che il lettore ammirevole non è colui che si identifica col personaggio della storia ma con la mente laboriosa che lo ha concepito e gli ha cucito addosso un mondo in divenire.

Il lettore ammirevole, nel quale il professore vorrebbe ci trasformassimo, non è colui che si preoccupa di cogliere i principi generali e i massimi sistemi, almeno non solo quelli. Chi ama l’arte della parola ricerca il genio che l’ha prodotta nei dettagli, tra le righe: nella fetta di anguria succosa che Gurov addenta in una stanza d’albergo in Signora col cagnolino, nella borsa rossa di Anna Karenina, in ogni minuziosa epifania che non vuole figurare il quadro vero della Madre Russia, ma quello verosimile, immaginifico, dello scrittore.

Solo così si spiega l’atavica avversità di Nabokov nei confronti del collega Fëdor Dostoevskij, che non stenta a definire “scrittore mediocre, con lampi di humor eccellente ma inframezzato da desolate distese di banalità letterarie”.

Persino noi che vorremmo obiettare in coro – almeno chi scrive, che lo ama più del manzoniano Lev Tolstoj e della sua odiosa antieroina – che no, non è possibile imprecare così contro una divinità del pantheon, alla fine restiamo spiazzati. L’analisi psicopatologica del personaggio e dei suoi personaggi non fa una piega. Non ci resta che ammettere quanto, a ben guardare, Dostoevskij sia il più europeo degli scrittori russi, tradendo se stesso in qualche misura.

Ma in che misura, professor Nabokov? Trovo all’improvviso il coraggio di chiedere dal fondo dell’aula, mentre fuori l’autunno ricopre i prati di Boston di ruggine frusciante.

Nella misura in cui i poveri personaggi dostoevskiani soffrono tutti, con monotonia, di complessi prefreudiani, sguazzando banalmente nelle loro tragiche disavventure senza evoluzione né contesto. Non è il modo di procedere dell’Artista.

Allora chi è il vero artista? L’inarrivabile Tolstoj, seguito a ruota da Gogol’, Čechov e Turgenev. La grandezza del primo consiste nell’aver dato origine a un tempo universale, che è quello del lettore molto più di quanto lo siano state le dimensioni imbastite da Proust e Joyce, che sul filo labile della temporalità costruirono la loro fortuna.

“Essi si muovono o più lenti o più veloci rispetto all’orologio del nonno: è il tempo di Proust, il tempo di Joyce, non il comune tempo medio, quella sorta di tempo standard che Tolstoj in qualche modo riesce a trasmettere”.

Intanto, il tempo delle sueLezioni di letteratura russa scorre così piacevolmente che un tomo di quasi 500 pagine fila che è una meraviglia! Quanto al resto, agli autori depennati dal podio, incarnano quello status di mediocrità che il nostro definisce “corporazioni di letterati”, stritolate in egual misura dal governo e dalla critica anti governativa; dall’utilitarismo nei confronti dello Stato e da quello nei confronti delle masse.

Alla fine del semestre possiamo dire di aver appreso la lezione e di poter superare l’esame senza indugi. Qual è il messaggio? Che non esiste alcun messaggio, o meglio, che la letteratura con la “L” maiuscola è un “gioco sacro al quale bisogna saper giocare e in quanto “superiore forma di felicità” non insegna nulla che possa essere applicato ai problemi della vita di ogni giorno, se non le più segrete combinazioni iniziatiche dell’arte.

Ne parlo anche su Glicine Rivista.

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